mercoledì 26 novembre 2008

Scusa se ti chiamo Er Catena



Marcella aveva ricevuto in dono da sua madre una particolare catena di Dna che le conferiva ancheggiare distratto e mortale, da autoarticolato impazzito.
Tra i seni, l'odore pungente di appretto e chanel numero 5, che si insinuava nel mondo dei maschi e lo rendeva fertile come pioggia buona,
una linfa amabile, capace di rivitalizzare savane ingiallite dal sole africano.
Una prosperosa dose di affetto le rimbalzò incontro dal suo uomo, Er Catena, autoironico picchiatore di estrema destra, estremamente sinistro, ma buono come il pane. Lui, nonostante il nome, del Dna, sapeva poco o niente, se non che esisteva una prova chiamata così. E le prove sono cose brutte brutte, soprattutto se hai una lista di precedenti penali che ci puoi incartare una porchetta sana.
Er Catena e Marcella, dal canto loro, sapevano snocciolare a memoria i santi e i fanti, ma erano pure capaci di farlo in una fiat punto, snodati equilibristi dal sorriso consunto.
In mezzo, dappertutto, c'erano cadaveri di lattine, birre accartocciate da mani tozze, pezzetti di fazzoletti con dentro pezzetti di lacrime, un indirizzo per ritrovarsi e cento per perdersi, un tatuaggio polizia non ti temo, un sorriso scemo davanti all'orgasmo femminile, una polaroid di un'altra donna con su scritto tu rimani una zoccola.
Er Catena guardava Marcella e trovava occhi di kriptonite e le sussurrava parole ardite:
- Amo', mettiti così, muovi quella gamba, dimmi che sono bravo a farti l'amore.
Marcella sorrideva e metteva su quelle rughe di chi aspetta, invano, un futuro migliore.

venerdì 24 ottobre 2008

Ode al ramarro*



Resti arrotolato sul tuo
rossore,
arrabbiato depositario
di un herpes interiore.
Ruoti tarantolato come un
motore,
arretrato mandatario
di un futuro migliore.
Chi sarai tu, Ramarro?
Un bacio al rallentatore
o la ferita purulenta
di uno sgarro?

*Prendete tre amici con la "r" moscia, arrotata o gianniagnellica. Fatto? Bene, adesso fateli bere e metteteli a declamare...

lunedì 20 ottobre 2008

Gianni ha un piano



Gianni sta sempre un passo avanti a tutti, perché gli piace sedersi ad aspettare e sorridere al sole, con la faccia di chi sa un segreto e se insisti te lo dice.
Oggi indossa un cappotto nero e ha una macchia di sugo rosso sul polsino bianco della camicia. Trés blasé, inclinazione naturale da Agnelli dei poveri, ma con poche cravatte e pure sbagliate.
Le scarpe sono buone, in pelle morbida, perché di inciampi la vita gliene propone in continuazione e allora tanto vale avere ai piedi qualche vantaggio in più. Se non le ali, almeno un manufatto in pelle di gnù. Nel portafogli, la tessera dell'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti perché non si sa mai: se lo fermano sulla moto mentre impenna contromano a Via Veneto, almeno può spiegare, può dimostrare, può suscitare quella compassione nelle forze dell'ordine che fa tanto piacere ai giornalisti e al loro vate, Michele Cucuzza.
Come al solito, è un passo avanti. Si siede sulla panchina e aspetta.
Aspetta quel tipo col giornale, così lui gli si mette dietro con gli occhiali scuri e fa finta di leggerselo tutto a sbafo, il Corriere dello Sport.
Se il mondo è Harry Potter, Gianni è Voldemort.
Perché lui ha un piano, e non ha paura di usarlo.

lunedì 13 ottobre 2008

Gingle in the jungle



Non esiste sporco impossibile. Soprattutto se sei disposto a rimanere in ammollo per una vita, anche quando sei un chitarrista jazz davvero sopraffino. Ma sotto le unghie, dietro le orecchie, nell'ombelico, ci sono nascoste cose odorose, mosti selvatici e pezzettini di un maldestro purgatorio in terra.
Due fustini al prezzo di uno. Magari. Anche uno e mezzo, uno virgola uno. Montagne di detersivo, pallini fluorescenti che lasciano sulle mani la sensazione della sabbia di Tor San Lorenzo. E dentro ai fustini, bicchierini blu scuri, di plastica morbidina, scafi post-moderni inaffondabili come il Titanic e la sua orchestra. Alla chitarra, Franco Cerri: sì, ancora lui, l'Uomo in Ammollo.
Calimero è piccolo, nero e lagnoso. Da abbattere senza rimpianti in mare aperto, prima dello sbarco a Lampedusa.
Carmencita, invece, ha curve di carta tagliente, rossetto morboso e capelli gitani. Per conquistare il cuore di un pistolero, lei è capace di fare trecento caffè senza mani.
E io cresco, bene o male, con la convinzione di essere il migliore, figlio unico di una generazione di letti a castello. Le preghiere e a nanna dopo Carosello.

giovedì 9 ottobre 2008

La casa di Gianni Rodari



La casa di Gianni Rodari è stata costruita da un muratore distratto, che ha dimenticato di fare il soffitto e la cucina. Per farsi perdonare, l'onesto lavoratore edile l'ha dotata di una grande finestra.
Da lì, Gianni Rodari vede una formica e una cicala. E la sua mente di scrittore pedagogo non si sottrae a un innocuo gioco. Prende carta e penna e scrive:
“La formica ha sempre lavorato e ha tutti i contributi versati per benino.
La cicala ha lo sguardo rilassato, si è appena svegliata e ha pranzato in centro.
La formica ha sempre sollevato pesi ben più grandi delle sue possibilità.
La cicala ha fatto lo stesso, sollevando gli occhi su chi non meritava nemmeno il conforto di uno sguardo.
La formica non è mai arrivata in ritardo. Al suo funerale, si è avvantaggiata per non provocare disdegno e si è infilata da sola in una minuscola cassa di legno.
La cicala arriva sempre talmente tardi che la Morte, stanca di aspettare, va a prendersi un’altra formica, già pronta e pettinata per l’ultimo saluto.”
Poi, non ancora soddisfatto, Gianni Rodari prende un foglio intatto e scrive:
“La lacrima di un bambino viziato pesa meno del vento. Quella di un bimbo che soffre, pesa più del mondo...”
Io mi metto l’anima in pace, prendo mia figlia per le mani e faccio girogirotondo...

lunedì 6 ottobre 2008

Color color...




Ti parlerò del blu. È caldo, sotto le dita. Immagina un criceto che ti si agita tra le mani, con unghie che fanno il solletico e nasino umido, da cacciatore notturno col raffreddore da fieno. Ecco, questo è il mio blu. Non ha forma, solo sostanza. Il verde è un pallone rasoterra, lo schiaffo di un’onda, un aperitivo in una sera di maggio con quella ragazza che non ha pudore di dire le cose che dice.
Il giallo è una musica leggera, la radio che gracchia quando il segnale è disturbato, la crema sul gelato, l’amore ai tempi del Barbera. Il viola è quello sguardo che conosco bene, perché mi si accende dentro quando mia madre dice che devo mettermi la maglia di lana e lavarmi le mani, che la cena è in tavola. L’arancione è il mio preferito, il finale di una favola, un’esplosione dietro le pupille, la canottiera esasperante di mio fratello il Benpensante. E che dire del bianco? È la cima del Monte Fato, dolore senza consolazione, ambulanza e lenzuola, amore straziante, dispersione del seme, due labbra che si separano e che non si vogliono bene. Il nero? Non capisco, non conosco, non esiste. È quel sudario che tengo in serbo per la resa. Lo so che mi hai chiamato cieco, ma non me la sono presa.

mercoledì 1 ottobre 2008

Spammami l'anima



Scrivimi e-mail cartacee, le cestinerò dal vero. Poi, se ti va, spediscimi quella tua foto nuda che non ci posso accedere senza mandare il mio profilo a un cacciatore di serial-killer della Cia. Continuando a portare avanti la nostra conoscenza, addami al tuo blog, magari con un link molesto, da pubblicità del viagra e allungamento del pene. Adesso che siamo in grande confidenza, chattiamo in tempo reale e segnati il mio indirizzo per guardarmi in webcam mentre ti penso. Maria, sei ingombrante per la privacy, ma eterea per quel che riguarda le esigenze del corpo. Vediamoci a Piazza della Repubblica, il Messaggero sotto il braccio e una rosa rossa in mano. Sì, ti porto a vedere un film porno, ma che vuoi farci? Sono uno all’antica. Uno che si innamora cento volte al giorno di una vecchia amica.

giovedì 11 settembre 2008

A Panda piace...



Mi smonto, scappo, rido, inciampo.
Sono un comico da vaudeville, un cantore dell’ombra, un poeta innamorato di un’attrice del muto.
Faccio puzze da Guinness, bevo Guinness, ho apprezzato Alec Guinness, soprattutto in Guerre Stellari.
Mi nascondo dietro il bordo della vita, strappo il confine tra la realtà e il sogno, mangio di notte, scivolo da un letto a un altro e arrossisco perché il sesso non è contemplato.
Spizzico bocconi di talento, mi nutro di sentimento, virtuoso del Control C, affezionato al lato B.
Mi distinguo, non mi estinguo.
Vorrei spiegarvi il mondo, ne sono capace.
Ma preferisco il letargo.
A Panda Piace.

mercoledì 30 luglio 2008

L'amore conforme



A te, che sei diverso. Dico a te.
Quindici anni e mezzo di rancore, occhiali Persoll, maglietta degli AC/DC, scarpe dr. Martens.
Al concerto dei Police sei riuscito a non ballare.
Al mare, stai sotto l'ombrellone.
Dico a te. Attento. Lei ti ha guardato.

Lei è serena perché da lontano non si nota lo strabismo di Venere.
Lei ha le maniglie dell'amore, che aggrappartici e morire è questione di una sfumatura, di un colpo di sole che dribbla i Persoll con irridente facilità.

Intanto, risorge Pablito: tre gol al Brasile.
Attento, non guardarla troppo, ti si alza un sopracciglio e viene meno il personaggio.
Si avvicina, lei, con quel costume intero nero che le sta d'incanto.

- Stasera faccio una festa a casa mia. Vuoi venire?
Ha la voce di una dea, quella di Sottiletta, quella di Vanessa Paradis.
- Sì.
- Bene! Alle otto. Porta un paio di birre.
- Sì. Le birre.
- Sai dove abito?
L'Italia gioca il jolly, sulle facce sorridenti di Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi: tri, tu, uan!
- No. Ma ti trovo.

Sorride, lei. Si allontana sicura, il culetto duro e zuccheroso come un pandoro di cinque giorni.
Sorridi anche tu, stronzetto.
Come la trovi, eh?
Come?
Pedinamento da stalker, confidenze col bagnino, suppliche a tuo cugino dj. Orgoglio sotto i piedi, vero?

La casa è una villa a tre piani. C'è la piscina, gente in costume, tuffi a bomba. Tu sei serio come una brutta notizia e hai scaldato le Peroni.
Lei ti vede e vorresti sparire.
- Ciao! La Peroni fa schifo!
- C'era solo questa.
- Fa niente. Sono contenta che sei venuto. E che mi hai trovato!
- Sì.

Ti presenta dieci amici ugualmente diversi da te. Dopo venti minuti, vi baciate all'ultimo sangue nella camera del fratello grande. Alzi gli occhi, prendi fiato e lo vedi. Il poster di Angus Young. Sorridi, ti togli i Persoll e sai di essere a casa.

mercoledì 23 luglio 2008

Nascita di uno scrittore



C'era quel baretto che non dovevi chiamarlo per nome, ma solo entrare e credere alla sua esistenza, a quella pozione straordinaria che esalava nell'aria, fatta per metà di campari, per metà di marlboro dure, per metà di caffè freddo e per metà di schedine precompilate: Atalanta-Milan due fisso. In quel posto, quattro metà facevano uno, perché, come già detto, ci dovevi credere e basta.
Carlo era il barista, mezzo Merlino e mezzo Abatantuono, capelli che non gli han dato un rigore, baffi a spazzola, sorriso da carpa che l'hanno ributtata a fiume perché troppo brutta perfino per la zuppa, incantatore di clienti avvezzi al brancamenta alle sette di mattina.
La prima volta non è che ti accogliessero bene, quegli avventori anonimi fin troppo conosciuti.
Avevano segreti mappati con cura sulle loro facce, arate di traverso da rughe lunari.
Mogli infedeli, mogli troppo fedeli, suocere e figli, figlie e cani da pastore senza gregge.
Uno aveva anche un'amante, ma solo perché nessuno osava spiegarli che quella era la sua unica donna, visto che la moglie l'aveva lasciato per un disoccupato scontroso con l'hobby della fisarmonica.
C'era uno che viveva per il concerto di Capodanno della Filarmonica di Vienna, perché una volta c'era stato, per via di un biglietto omaggio vinto con l'incarto di una palla di Mozart. Una palla anche quella. In realtà, era stato a Graz, da una cugina, che lo trattò per tre giorni come un malato di mente, visto che non capiva una parola della lingua imperante.
Che l'Impero è una brutta cosa con cui avere a che fare, chiedere a Jan Solo, citofonare Ciubecca.
Dicevamo che l'accoglienza non era il piatto forte di quel baretto senza nome.
Ma io feci un ingresso trionfale a undici anni, reduce da un funerale, dall'acquisto di Devil gigante numero 1 e titolare di un paio di Mecap seconde a nessuno: gialle e viola, come le maglie dei Lakers. E Magic Johnson era un ragazzo come noi.

martedì 22 luglio 2008

Troppo veloce, troppo furioso



Per affrontare al meglio un corridoio d'ospedale devi guardare nel nulla, in quel punto imprecisato che sta tra gli occhi e il naso. I colori che hai intorno - celeste, bianco, grigio e verde - trasformali in pietre di nessun pregio, perline sacrificabili in cambio di viveri e donne indigene. Dell'odore di alcool e feci fanne qualcosa di trascurabile e delicato, tipo l'origami di un cigno che non ha mai volato. Gli infermieri ciabattano intorno, quello è il loro mestiere, folletti sorridenti e dolci euchessine per l'anima ingolfata dei parenti. Ecco, sei arrivato. La camera è quella che stanno rifacendo, dove tu sei fastidioso come un vecchio zio che viene a trovarti la domenica mattina, fumando MS e snocciolando tristezze di quand'era felice.
Tua madre ti sorride, perché pensa che sei venuto per portarla a casa.
Non è così, però. Non è mai così, perché i finali, se ci pensi, li scrivono tutti uguali.
E allora la pettini con cura, le versi l'acqua sgasata e le racconti di come sta bene per essere quasi andata. Poi ti giri e la vedi. E la tua vita ruota intorno a quella cosa, il tuo cervello si mette a fare la bandiera, come un bagnino magro aggrappato a un palo di legno sulla spiaggia di Cerenova.
La goccia della flebo.
È così lenta che non può servire a niente. Ma la tua mente adesso è lucente e articola un concetto, una risposta trasversale, e tu metti su quel sorriso da poeta micidiale.
La goccia è troppo veloce per l'occhio umano.
No, non ci siamo: il discorso è diverso.
La goccia è come la lancetta dei minuti dell'orologio, veloce e lenta allo stesso tempo. Cresce la goccia di fisiologica, si fa bolla, cola nel tubicino, entra nell'agocannula, esplode nelle vene. Non c'è niente di più veloce, niente di più lento, niente che distorca e strazi di più il tempo.
Guardi il pettine ed è pieno di capelli.
Il comodino è pieno di riviste.
Tutto intorno, all'improvviso, c'è troppa roba che gira veloce e scopri di far parte tuo malgrado di una generazione Mtv: immagini spettacolari, niente contenuti, musica che interrompe la pubblicità, ti trucco la macchina, ti costruisco una casa che assomiglia a una nave, ne parliamo domani.
E tua madre, che vuole parlare subito di tutto, è sempre stata più veloce di te, del tuo pensiero laterale, della tua multimediale carenza di stimoli.
Lei sparecchiava che ancora non avevi finito di mangiare, faceva i piatti quando dormivi, la spesa in quei tempi morti che si incolonnano tra una seduta al bagno e una telefonata per il calcetto.
Tu giochi, porti il pallone e le magliette.
Lei non gioca, non più.
E il tempo, in ospedale, è ancora prigioniero di quella flebo.
Troppo veloce, troppo lento.
Troppo anche per te, che hai spalle normali e poca propensione a immaginare quello che va oltre la pausa-pubblicità.
Ma un trucco ce l'hai, sei nato prematuro, fregando un ginecologo, tuo padre e l'astrologo.
Troppo veloce, troppo lento, troppo furioso.
Saluti e ti allontani. Visto da dietro, sembri piccolo e stanco, ma sei solo un parente che è arrivato troppo tardi per chiedere al dottore qualcosa che già sa.
Sei una goccia nella flebo, una sveglia radiocontrollata, un foglio di calendario da macelleria dell'anno vecchio, con sopra un appunto scritto da tua madre:
zucchero, sale, pappa per i gatti, patatine pai.
Queste sono le cose che fanno più male, perché dovresti saperle e non le sai.

lunedì 14 luglio 2008

Appetite



Piangono i salici in riva al lago.
Piange Susanna, lasciata in tronco da un commesso viaggiatore che non è morto mai.
Susanna ha un sistema per uscirne fuori. Si chiama bulimia, e sembra che non ci sia. Invece c'è, eccome. La sua gonna a pieghe, messa per lui, è blu come l'agonia di un cianotico. Sotto, spiritosi e fuori luogo, un paio di frye neri si sporcano di sabbia e diventano piedi di guerrieri, superati dal tempo e incrostati dalla noia di un bar aperto fuori stagione.
È il 1980 e qualcosa. Nascosto da qualche parte, in una soffitta o nella cucina di una palazzina vittoriana, Paddy McAloon comincia a scrivere Appetite.
Susanna, intanto, si chiede come sarà il prossimo.
Un ragazzo dolce, magari un ladro di sorrisi, un acrobata del doppio senso, un originale poeta qualunque, un muratore col vizio del bere o un ubriacone col vizio della rasatura.
Ma ci sarà, il prossimo. C'è sempre stato.
Paddy McAloon, intanto, fa sentire la sua canzone al fratello, che dice che è carina.
Susanna passeggia scalciando, come un maschietto appresso a una lattina. Solo che qui la lattina è lei. Sigaretta Muratti, accendino Bic, rossetto a prova di bacio Lancome, al nono posto della classifica c'è Victims, loro sono i Culture Club.
Susanna sbuffa fuori il fumo e fa abbastanza rumore per non sentire quel pianoforte straziante.
Che certe canzoni sanno tutto di noi.
Paddy McAloon, da parte sua, pensa che sia ora di andare a dormire. C'è abbastanza materiale per l'album e il titolo brilla nella sua testa come un'insegna al neon: Steve Mc Queen. Anche se gli manca una frase, una frase sola per concludere Appetite.
Susanna torna a casa, parla con la sorella di come è cambiata Fiorella Mannoia, si siede davanti a un foglio bianco e scrive:
se decidi di lasciare qualcuno, fallo e basta.
Invece, se decidi di rubare, fa' come Robin Hood…
Paddy McAloon si sveglia, strappa un pezzetto di carta dall'elenco del telefono di Durham e scrive:
If you steal, be Robin Hood…
Yeah.

martedì 8 luglio 2008

Condominio



Miriam ha fatto outing. È uscita allo scoperto.
Io ti amo.
Anche se sono della Lazio?
Sì. Passerà.

Filippo ha preso il toro per le corna.
Lascio il lavoro.
Ma se non hai mai lavorato!
Lo lascio prima che lui lasci me.

Giovanni è andato a vivere da solo.
Me la caverò. Come si carica la lavatrice?
Senti a mamma, prima devi aprirla.

Katia ha deciso.
Non ce la faccio più a vivere con te.
Il gatto Conan la prende a verso e si trasferisce in un cortile.

Sergio lascia Cinzia per un bagnino di Rimini.
Andiamo a vivere insieme?
Chiudo gli ombrelloni, rimetto a posto i lettini e poi ti dico.

La famiglia Gerardi cambia vita.
Mettiamo Sky, calcio incluso.
Ce lo possiamo permettere?
Si vive una volta sola.

Qualcuno, senza dire niente, prende la macchina e va in fabbrica. Tutti i giorni, da trentadue anni. Nessuno ne parla, però. Quindi, non è mai successo.

martedì 17 giugno 2008

Il Paz, secondo me




Hai la matita d’oro!
Lascia stare il papa!
Il presidente non si tocca!
Via quelle siringhe!
Tappati la bocca!
Parlaci del tuo lavoro!

E poi c’ero io, ventiduenne in equilibrio su una lastra di ghiaccio, a guardare l’elogio funebre di un genio che non conoscevo bene, splendente e insoddisfatto, raccontato tutto in una notte su Teleroma 56. L’avevo incontrato in Comic Art, Andrea Pazienza. Mi aveva stretto la mano, avevamo parlato di soldi e di donne che spendono soldi. Ne sapevo poco, come di tutto il resto, perché avevo vissuto la strada ma non l’avevo capita. Pur di non rimanere zitto, buttai lì una cazzata, che lo fece ridere un po’.
Poi mi accodai alle menti migliori della mia generazione: riesumai il grande autore, lo spolverai per bene e lo misi in libreria, a prendere polvere nuova.
Vent’anni dopo i nemici ci sono ancora, ma non è rimasto in giro nessuno abbastanza bravo per mettere i sottotitoli giusti ai monologhi delle maschere di cera.
Pazienza faceva i dispetti anche da grande, perché era come l’incredibile Hulk: se lo sgridavi, diventava più bravo.
Adesso disegna ancora, senza colori e senza fogli.
Niente paradiso, nessun inferno.
Cercalo in quel ghirigoro di luce, quando apri la tenda la domenica mattina. E' un disegno superiore, di cui sei in balia, che ti strappa un sorriso e ti fa a pezzi il cuore.
Parla anche da dietro il velo, il grande autore.

mercoledì 21 maggio 2008

sundaymondayhappydays



Conosco uno bravo che vende enciclopedie. C'è anche lui, lì sopra, alla voce "scrttore". Ma lo confessa soltanto alle signore sole.
Che poi, se guardi bene, le signore sole non esistono per davvero. Sono divorziate tampinate da novelli Fonzie, vedove col reggicalze e pensionate danzereccie.
Gli uomini soli, invece, sono balenotteri spiaggiati, sorrisi grigi per l'asfalto che hanno versato e percorso, mani gialle per la nicotina e facce cotte da pomeriggi sul litorale, spesi a caccia di signore sole quando loro erano ancora tutti giovani e belli come Arthur Fonzarelli.

Come t'intitoli, bella?
Sei un capolavoro d'arte moderna!
Che hai un momento per un vero uomo?
Che sai l'ora?
Che posso offrirti un caffè corretto?

Il rito è noto, è danza di pavone, coda di lucertola, osso di seppia, caduta di stile e impennata d'orgoglio. Eppure, se guardi bene, è spesso soltanto una questione di portafoglio.

Conosco uno antico e smozzicato come un sigaro toscano, che ricorda com'era prima dell'invenzione del sesso. Gite al centro, bagni al fiume, palloni di stracci da rincorrere in salita. Dice che si stava meglio e io ci credo.
Ma poi ricordo quel costume col nome di un atollo, un culo ritto che Guccini ci ha perso il sonno, la pelle consumata dai baci incerti e noi due stesi vicini, a colare giù come panni bagnati.
Ma la vuoi sapere la cosa più triste?
Tra cinque mesi Fonzie avrà sessantatré anni suonati.

venerdì 25 aprile 2008

MalTempo



Hai visto un uomo che moriva per amore.
Ma era aids.
Malattie dimenticate, come ex-fidanzate di tennisti fuori classifica.
Altri bauli vanno riposti in soffitta, con dentro pezzi di vita e foto di nonna che gioca con un cerchio in piazza.
Bollo, assicurazione e catene di macchine che non ci sono più vanno a finire in un posto segreto, nella pancia di un deserto o di un bastimento carico carico di risentimento.
Ricordi quella bicicletta che non ci arrivavi coi piedi. E la tua voce dal registratore, estranea e metafisica come una palude sopravissuta a una bonifica.
Ricordi le radio libere e le scuole occupate, ma dimentichi la lista della spesa e il segno meno davanti a soldi già spesi.
Un pedalò di trent'anni fa è lucido e lucente come il dente di un cattivo di un cartone animato. Dimmi l'ultimo posto dove sei stato in vacanza. Plastica e vongole, in un agosto contromano, pieno di nuvole basse e di carcasse di bagnini.
La polaroid con le foto che ti nascevano in mano e la digitale che se ti sbagli non fa niente. I figli degli altri erano lontani e fastidiosi come tweeter gracchianti. I tuoi sono pezzi di cuore matto, se cadi ti do il resto, lavati le mani e non rispondere a mamma, cosa ti manca per essere contento? Tutto resta uguale, compreso il cambiamento.

martedì 15 aprile 2008

Dispari o pari?



Mastro Lindo dice vado a bere alla fontanella.
Io dico fermete, Mastro Li’!
Troppo tardi. Tutta schiuma.
Il nonno di Heidi dice vado all’anagrafe e mi scelgo un nome. Va bene Robert Ellidge?
Va bene, ma resti sempre il nonno di Heidi.
Certe sere è meglio se stai a casa, dice il padre di Elton John.
Ma Elton ha una giacca nuova da sfoggiare e un’idea per una canzone, ne dovrà parlare con Bernie.
Bernie Taupin è un paroliere tipo Mogol, ma più sregolato, che ha scritto anche una canzone per Brokeback Mountain, film che a Elton John è piaciuto molto.
In quella pellicola, comincia a brillare la stella di Heat Ledger, che si spegne a ventinove anni.
James Dean, invece, è morto a venticinque, ma nel discorso c’entra anche lui, seppure di striscio. Elton John, quello con le giacche sgargianti, si chiama in realtà Reginald Kenneth Dwight e ha preso parte del suo nome da Elton Dean, sassofonista di belle speranze che finirà a suonare con i Soft Machine.
In questo gruppo militava il grande Robert Wyatt, vero nome Robert Ellidge, sosia sputato del nonno di Heidi.
Lo so, lo sai, copiava Venditti dalla radio, con in testa il modello di Elton John e senza sapere che i loro padri erano entrambi militari.
Forbice, sasso, carta, dispari o pari?

mercoledì 26 marzo 2008

Cosa fare a Dover quando sei Bono Vox



Paul David Hewson, in arte Bono Vox, si aggirava in macchina per le bianche scogliere di Dover, insoddisfatto e vestito di pelle come può essere soltanto una rockstar. Ora. Io non so un cazzo delle strade che percorrono le bianche scogliere di Dover, ma me le immagino quanto meno sdrucciolose. Dicevamo di Bono Vox. Per inciso, il ragazzo irlandese aveva scelto il suo nome d'arte da un negozio di apparecchi acustici di Dublino, ma adesso era a Dover e ci sentiva bene. Erano tempi di audiocassette, buone per le compilation e per i provini delle nuove band emergenti. Bono era stato da poco al Live Aid con gli U2. L'esecuzione di Bad l'aveva tirata per le lunghe, per oltre quindici minuti, e si era gettato ripetutamente tra il pubblico. Come a dire che forse non ne poteva più di sentire la sua voce, che in quel momento veniva sparata fuori dalle casse della macchina con le basi del prossimo disco. Meglio passare ad altro. La sua mano armeggiò con qualche nastro: The Boss, The Police, Ella Fitzgerald. Troppo testosterone, troppi biondini mezzi froci, troppa tecnica. Fu così che diede credito a quel nastro bianco, anonimo, che gli aveva dato una sua amica. Sopra al nastro, col pennarello rosso un po' sbavato, c'era scritto soltanto In a lifetime. Mmm. Roba irlandese, di quei fratelli del Donegal che rispondevano al curioso nome di Clannad. Quando partì il pezzo, Paul David Hewson, detto Bono Vox, credette di sognare e rischiò di sfracellarsi ottanta metri più in basso.
Si fermò a una cabina, fece il prefisso del Donegal e disse pressappoco così:
- La voglio fare.
Una fiera voce maschile irlandese rispose:
- Falla. Ma chi cazzo sei?
Bono Vox si scordò che il suo vero nome non lo conosceva nessuno, soprattutto in Irlanda, e disse:
- Sono Paul David Hewson.
- Bel nome. Facile che mi sono scopato tua sorella, Emma Hewson.
- Non ho una sorella con quel nome!
- Bella tipa, comunque. Beve come una cammella, ma è una forza della natura.
Bono Vox guardò la cornetta come si fa con un fazzoletto di carta molto usato, in cerca di un angolo pulito, e poi cantò:
- I can't believe the news todayyyy…
- Bono! Macheccazzo!
- La voglio fare, quella canzone. Stasera torno e ci vediamo da me. Porta tua sorella.
- Ehi, ci sei rimasto male per Emma? Mi dispiace…
- Tua sorella deve cantare. Con me. In a lifetime.
- Ah. Certo.
Bono Vox attaccò la cornetta dopo aver salutato uno dei fratelli del Donegan. L'educazione è importante, anche quando sei una rockstar vestita di pelle, con una canzone che ti è appena entrata nella testa.
Salì in macchina, riavvolse il nastro, lo fece andare e partì piano, perché delle strade che percorrono le bianche scogliere di Dover ne sapeva poco pure lui.

sabato 1 marzo 2008

La legge spietata del ring



Quando non prendi sonno c'è qualcuno che gira per casa. Un pensiero cattivo, un ricordo vivo, una persona amata, una scusa mancata. Nel mio caso, un dialogo vero:

- Chi è più veloce, il leopardo o la farfalla?
- Il leopardo.
- Leopardo o ghepardo?
- Ghepardo.
- Ghepardo o…
- Il ghepardo è il più veloce di tutti.
- No, papà! C'è Robertino!
- Robertino?
- L'amico mio. Quando si mette le scarpe della comunione sembra che vola!
- Ah, ho capito chi è. Sì. Robertino è veloce.
- Più del ghepardo!
- Non lo so.

Mio padre non si arrendeva, ma nemmeno infieriva.
Adesso lo so che Robertino non era più veloce del leopardo. Erano pari.

- E' più pesante l'elefante o la balena?
- La balena, Lorenzo.
- Ma l'elefante ha le zanne.
- Sì.
- E le zanne aumentano il peso.
- Un po'. Ma la balena ha i fanoni.
- E' vero.

Ogni tanto mi arrendevo io. Andavo a riprendere sempre il pallone, così lui non si stancava e giocavamo di più. Mi nascondevo sotto al tavolo quando tornava dal lavoro. Incollavamo insieme le figurine e con Mazzola ho finito l'album.

- E' più forte Foreman di Cassius Clay.
- No, Lorenzo. Nessuno è più forte di Cassius Clay.
- Sulle figurine delle olimpiadi di Monaco, c'è scritto che Foreman non ha mai perso.

Abbiamo visto insieme l'incontro. Ha vinto Clay, naturalmente. Più veloce del leopardo e di Robertino. Pugni pesanti come elefanti. Foreman, invece, era grosso e inoffensivo come un fanone.

Quando non prendi sonno ti scopri più vecchio, perché i ricordi recenti diventano sfocati e la roba degli anni settanta è viva e vivace come le Mecap, la Prince, il Dalek e un padre che non c'è più.
Quel padre, adesso, sei tu.

venerdì 15 febbraio 2008

Il successo dell'estate



La casa era disseminata di posti segreti: cassettiere e bauli, armadi umidi di naftalina e pieni di vestiti Anni '60. Michelino curiosava tra ricordi non suoi, con occhi grandi come panini rotondi. Lettere leggere e posaceneri pesanti gli raccontavano di amanti col cuore frastagliato dall'urgenza. Anche i nonni si erano appartati, a giudicare dalle foto. Anche i genitori si erano sbucciati ginocchia e pensieri, ed era appena qualche anno prima di ieri. Dentro una borsa della Lodigiani Calcio, davano bella mostra di sé i seguenti, improbabili oggetti: una sciarpa di troppi colori, un libro di Don Peppone, una cartolina del lungomare di Pescara, una foto di Charles Aznavour ritagliata male e poi il tesoro più prezioso. Una chiave color d'argento, simile a un pesciolino che fino a un istante prima guizzava in un banco e che poi si era perso su un fondale bianco. Michelino se la rigirava tra le mani, guardava la filettatura e la teneva col rispetto dovuto a un ghiacciolo d'estate. Che cosa apriva, quel passepartout spazio-temporale? Una porta, un portone, una cassa, un ricordo? Il ragazzino decise in un momento che il pesciolino regolava l'accesso tra lui e tutto il resto. Era una chiave filosofale, una bacchetta magica degna di Merlino. Sorrise e la buttò in fondo a un cassetto. Perché è meglio custodire un potere, piuttosto che usarlo in maniera imperfetta. Michelino chiuse gli occhi e fischiettò il successo dell'estate: Love is in the air. Magari fosse vero…

mercoledì 6 febbraio 2008

L'omino bufo



la gente dicono
i paesi mormorano
i corridoi vociferano
i sussurri gridano.

Qualcuno, però, tace. E non perché acconsente. Semplicemente, ha perso le parole per un colpo di sole, quando lei è uscita dall’acqua con la pelle che sapeva di sale e di buste di plastica. Giornata fantastica, a Ostia Lido.

i giorni passano
i passanti pure
il tempo vola
ma gli aerei no.

Hostess e osti intasano le fraschette. Giornate troppo perfette per durare, un po’ come il matrimonio quando c’è troppa differenza di età. Non amarmi, non ti sento. Quando esci, io rientro. Non sei mio padre. Per fortuna, no... non lo sono.

il vizio rimane
il pelo si perde
il lupo è odiato
l’agnello armato.

La vittima e il colpevole hanno preso casa insieme. Un processo val bene una fila da ufficio postale. Quel bambino è morto davvero male, quell’altro l’hanno rapito gli ufo. Invoco e rimpiango la mia innocenza, di quando leggevo L’omino bufo.

venerdì 25 gennaio 2008

orevuar



Stralunato marziano, seduttore di vecchie zie, lingua tra i denti a scivolar parole, capelli che non gli han dato un rigore e che protestano forte. Sette film in sei anni, spremiamolo a dovere, magari non dura. E lui, per coerenza, è durato poco, fino a 23 anni, quando la morte è vera solo se vai in guerra o se al tuo amico gli scivola la mano sul gas della moto. Un tizio che aveva solo due anni più di me se n’è andato quasi vent’anni fa. Un tizio che la vita l’aveva presa a verso, col talento di chi non ha talento e lo sa. E dio o chi per lui ha spento la luce, abbassato la voce, esposto la salma, calato il sipario, mandovai se la banana non ce l’hai. Niente banana, niente pranzo, niente invito al prossimo Maurizio Costanzo show. Ciao, Nik Novecento. Buon divertimento.

domenica 20 gennaio 2008

Sosta del campionato


Una volta ero parecchio più bravo.
Palleggiavo con un'arancia, flirtavo con donne sposate, mettevo su pancia e giù risate.
Ero capace di non dormire per tre giorni. Sapevo partire per posti vicini e lontani con la stessa curiosità negli occhi, peraltro protetti dai Ray-ban, con quelle lenti verdi che mi davano una distonia da pesce in acquario.
Venivo bene in foto. Sorriso e zigomi si mettevano d'accordo e attrezzavano un me stesso niente male: un po' Alain Delon e un po' Walther Matthau, rapinatore incallito, baro impunito, seduttore impenitente, belloccio deficiente.
Una volta imparavo e adesso insegno.
Chitarra, tennis, calcio e ghigno da comitiva. Barzellette sporche e freddure cattive. L'indirizzo di quella mora di scuola mia, senza avere internet e senza sapere cose: soltanto un pedinamento mal dissimulato, col giornale in mano, come un attore americano. Imparavo tutto e non dimenticavo niente, la memoria un hard-disk che non si piantava e non la piantava di ricordarmi chi ero.
Oratorio, preghiera e ginocchia brunite da graffi spessorati e consistenti come pezzi di cuoio. La prima di Guerre stellari e La febbre del sabato sera, a imbrogliare sugli anni un'esperta cassiera. Mettevo su musi da competizione, perché la vita era cattiva, la città matrigna e io una Biancaneve ancora senza mela.
Una volta sapevo a memoria i testi delle canzoni. Se non vincevo, ritentavo. Se non passava l'autobus, me la facevo a piedi. E imparavo sulle donne certe cose che poi mi son servite, da programmi di spogliarello e inquadrature ardite.
Una volta sapevo quello che avrei voluto fare da grande. Adesso lo faccio, ho squarciato il mistero. Nel mio villaggio è sempre domenica. E non ci sono nemmeno le partite.

venerdì 4 gennaio 2008

Unico, ripetibile amore



Come quando sporgi la testa fuori dal finestrino del treno.
Quel tipo di paura.
O la paura di non avercelo abbastanza grosso, che nei film porno le prendono da dietro e da un metro.
La paura di non essere adeguato, a livello di alito, per dire quelle frasi con quel tipo di sorriso.
Paura che non passi mai, o che passi troppo presto.

Giacomo si preparava a quel capodanno con addosso un repertorio di paure che Stephen King ci avrebbe fatto bella figura col suo editor e con la moglie Tabitha per molti anni a venire. Com'è come non è, la casa al mare dei suoi era rimasta vuota e lui era riuscito a portarci Sandra Costantini, che in classe era famosa per certe virtù che poco avevano a che fare con il gerundio e molto con una variante ben più frizzante dell'educazione fisica.
Sandra era in bagno a farsi bella.
Giacomo, invece, vagava per la casa con le mani dietro la schiena, come un pattinatore su ghiaccio in attesa del suo esercizio preliminare. Doveva sparare tutto: o dentro o fuori. Nessun ripescaggio.

Come quando ti sporgi da un balcone, di notte, guardando un cielo stellato.
Quel tipo di terrore.

Sandra, a vederla da vicino, non era bella come le ragazze di quei siti. Forse, a volerle abbastanza bene, potevi sovrapporla nella tua mente a una giovane casalinga amatoriale. Ma si era tolta il reggiseno e l'aveva lasciato fare. Giacomo scoprì che la cosa era abbastanza facile da maneggiare e che le dimensioni erano adeguate per un reciproco sollazzo.
La faccenda durò quanto doveva durare ma la cosa più interessante, alla fine, fu un'altra: che dopo un po' si poteva rifare.
Ostia era sempre una striscia di cemento tra i rifiuti e il mare, ma quei due ci davano dentro come se fosse l'ultima volta e non la prima. Ostia si fece Broadway, la notte si fece giorno.
Giacomo si fece Sandra, con addosso il consapevole dolore che era stato soltanto sesso, senza nemmeno una parvenza d'amore. E così che si diventa esperti di una materia complicata: cercando di mettere in colonna le donne della propria vita, partendo dalla prima per arrivare a quella che hai accanto in quel momento di fatui bilanci.

Come quando guardi un film e capisci subito il finale.
Quel tipo di paura.
Molto simile alla noia.