sabato 19 dicembre 2009

Kawasaki e vecchi merletti



Che poi lo fanno tutti i bambini. E tutte le mamme dicono la stessa cosa: hai pulito talmente bene questo piatto che non lo devo lavare, nonono! E tutti i bambini sorridono uguale, con la testa reclinata da un lato come capita ai cani. E si nascondono sotto al tavolo, che torna papà dal lavoro e non ti troverà mai perché c’è il passaggio segretissimo che porta nella dimensione del dottor Who e di Belfagor, mostri innocenti e diabolici portenti. Phantomas e Diabolik hanno le facce di gomma, di gomma è il cuscinetto di povera nonna, quello che serve a non farle venire le croste quando sta seduta per ore sulla comoda, quella sedia che comoda non è. D’estate, sputi nella maschera così non si appanna, mangi i panini con l’olio, i mandarini e bevi l’acqua scaldata dal sole. Tua madre ti pettina dopo ogni bagno, hai mangiato un panino e adesso aspetti tre ore come minimo altrimenti muori di congestione. Tua sorella ne approfitta e guarda quel tipo di Frosinone che è stato mesi in palestra per quel singolo momento, pancia in dentro e fuori il mento. Tuo padre legge il corriere dello sport e spizza le signore col pareo viola trasparente, il rossetto pesante e le Muratti da esportazione. Saprebbe cosa fare, come muoversi sopra quei pezzi di donna. Poi guarda tua madre e sorride, dimenticando per un momento quello che ha letto e che ha confermato anche la tivvù: Francesco Rocca non giocherà più.

sabato 19 settembre 2009

Storia di Massimo Sconforto



Colgo l'occasione per porgere i miei distinti saluti.
Fimato Massimo Sconforto.
Le formule ti mettono al riparo da qualcosa che va storto, prevengono l'errore del contabile turno, danno spalle forti al ministro e spalline al burocrate.
Massimo Sconforto si è appena licenziato, entrando in apnea come Maiorca Enzo, di Siracusa. Faccia da uomo segnato dal tempo prima del tempo, un giorno ha iperventilato e bestemmiato in diretta per colpa di Enzo Bottesini, campione di Rischiatutto e sub esperto.
La signora Longari non cadde mai sull'uccello di Bongiorno.
Ma la formula rimane, più forte del momento.
Rivale di Maiorca fu Jacques Mayol, classe cristallina e campione sregolato. Non tutti lo sanno, ma è morto all'Isola d'Elba, suicidato.
Massimo Sconforto, quand'era Carabiniere, firmava Sconforto Massimo, ma non lo dava a vedere. Obbediva senza chiedere, che fai meno fatica, e al centro sportivo andava in piscina a prendere il sole con le signore sole. La sera, pizza nel cartone e latte scaldato al micro-onde, un forno piccolino con un libro di istruzioni alto come un mattone: vietato introdurci cani e altri animali vivi, fate attenzione.
Mayol e Maiorca sono finiti nel film di Luc Besson intitolato Le grand Bleu, esaltato in Francia e bloccato in Italia per una denuncia del simpatico apneista siracusano: va bene la sconfitta di misura, ma veder straperdere non piace al pubblico italiano.
Massimo Sconforto ha ereditato una casa sull'Ardeatina e l'ha affittata agli studenti fuori sede, quelli col padre notaio e la madre insegnante, che la sera li puoi vedere a San Lorenzo a parlare male del mondo. Una Paypall la puoi ricaricare, ma con l'umore il lavoro è più profondo.
Ogni mese Massimo Sconforto prende duemila euro dall'affitto a nero, perché così fan tutti, che è pieno di rumeni e piazza vittorio è ormai tutta dei cinesi. Anche queste sono formule, ma quando le capiremo saremo ormai perduti.
Colgo l'occasione per porgere i miei distinti saluti…

venerdì 11 settembre 2009

Quei due a Riccione




L'uomo si guardò allo specchio e vide, nell'ordine di messa a fuoco:
fronte spaziosa, poche rughe, naso dritto, bocca volitiva, occhi scintillanti e sguardo sexy.
Perché, allora, campava di seghe?
Prese un foglietto e scrisse: comprare pancetta, latte, uova, caffè e gli stivali delle sette leghe.
La donna si guardò allo specchio e vide, nell'ordine di voglia di vedere:
mento cadente, bocca grinzosa, occhi pieni di zampe di gallina, naso unto e bisunto di punti neri.
Perché, allora, doveva scacciarli come mosconi?
Prese un foglietto e scrisse: comprare assorbenti interni, pesche, pollo, caffè e birra peroni.

I due si incontrarono in un supermercato che lanciava segnali di pessimismo a partire dai carrelli, pochi, sciancati e tintinnanti come vecchi modelli di pensionanti di Riccione e dintorni.
Lei mise una mano su quella di lui, scambiandola per un pollo morto.
Lui sentì il rumore di un argano, risorto dalle macerie di un cantiere terremotato.
L'uomo sorrise, la donna leccò nell'aria.
Dagli altoparlanti usciva Barry Manilow con la sua Mandy.
Per un istante, lei trovò che lui avesse degli occhi stupendi
Lui ritrovò il piglio del cacciatore, prese la clava e disse:
- Posso portarti a cena, oppure al mare.
Lei sorrise come un bucato appena steso e sussurrò a lui:
- Portami a casa tua. Faccio collezione di farfalle altrui.

Qui cala il sipario della rappresentazione.
Il resto è un balletto antico, coreografato poco e male, senza luci a occhio di bue
Se volete saperne di più, andate a Riccione e chiedete di quei due…

mercoledì 9 settembre 2009

Quello che non so



Non ho mai capito i capelli delle donne. La ricrescita ti consente di mappare l'età del mondo, di cercare il genoma definitivo, di leggere le coordinate dell'amore, se non addirittura di trovarlo.
Non ho mai capito quei giorni, sa, durante il mese. E quando dovrebbero capitare? Le donne sono calendari con un giorno in più, bisestili ogni istante, pensiero laterale e binario fatto di assi di legno, di quelle che ci hanno crocefisso Gesù e costruito la ferrovia dal Texas alla Lousiana ai tempi in cui John Wayne baciava ragazze che gli tempestavano la schiena di pugni inoffensivi come tosse di zanzare.
Non ho mai capito quel cambiarsi di vestito cinque volte, per poi uscire in ritardo che sembrano Tina Turner caduta in un sogno ipertricotico di Elton John.
Come sto?
Sei bellissima.
Mi dici sempre così!
Forse puoi provare a metterti quei jeans che…
Ecco, non ti piaccio.
Non ho mai capito che vuol dire il bacio negato perché è la prima sera.
Ma altre cose le so.
Il sorriso in quel momento, quando inarchi le gambe e mi chiedi di non smettere.
Il sorriso in quel momento in cui mi chiedi di fermarmi, che va bene così.
L'albero di natale, la colazione pasquale, la tradizione inventata, la risata trattenuta che non è educazione, l'occupazione a tempo pieno di una madre senza figlio, quella foto in cui ti assomiglio perché sono felice e non lo do a vedere.
Sei quel pensiero notturno di cui cantarono i poeti, esseri gobbi e ciechi, depositari di segreti, capaci di squarciare il velo del mondo. Ma la femminilità è un pozzo pieno di rugiada.
E soprattutto senza fondo…

lunedì 27 luglio 2009

Era il cognome



La madre è mora, coi capelli corti, i fianchi forti da partoriente estrema.
Si è sposata con la luna piena e ulula al marito che la pancia non era in dotazione, ai tempi del dammelo-prendilo-sei tu il mio grande amore.
Si chiama Rita, come la santa che ricevette la spina della corona di Cristo. Lei ha ricevuto un pacco anonimo, con dentro il rosario di Padre Pio che si accende al buio. Paura e devozione sono delimitate da un confine tenuto su da mollette per capelli e puntine da disegno: sottovalutare il mostro, in entrambi i casi, non è mai un buon segno.
Rita ha predilezione per i paradossi temporali, che sarebbero quelle situazioni strane che capitano quando piove forte. Una volta, è persino inciampata in un portone con attaccato un uomo dalle mani rapaci. Pioveva tanto, faceva freddo, è forse questo peccato per una donna pia? Sette paternostri e due avemaria.
Il padre Nando è calvo come un ginocchio di Nela, testa grossa, grana grossa, voce grossa, pacco medio. Lavora alla Telecom, che prima si chiamava in un altro modo, ma la tariffa migliore è sempre quella di un amico tuo. Da piccolo ha visto lucciole e lampare, donne in case chiuse con le gambe aperte, un tanto al grammo, la felicità. Un tanto al chilo la sofferenza, quando la madre è morta senza lasciargli la casa, che è di tua sorella, quella che si fa i cazzi suoi e pure quelli altrui. Ha una macchina da lavare, una camicia preferita, quella a righe celesti con le sue inziali A.A., come Affittasi Qualcosa, entrata indipendente, molto luminosa. Dicevamo della macchina, astronave madre, fija de na mignotta, arbre magic di un odore strano, che puoi farci l'autostop soltanto se hai in dotazione l'apposito asciugamano.
La figlia si chiama Cosetta, per via di una mezza zia portata via (sempre troppo tardi) dall'Influenza Spagnola. Anche lei è influente, a livello condominiale, poiché si dice abbia fatto l'amore per sperimentarne gli inganni appena prima della soglia dei perversi quindici anni. Porta gonne corte con regale indifferenza, dalle quali spuntano a intermittenza mutandine bianche e tracce di civiltà antiche, le magnifiche sorti e progressive di messaggi mandati nello spazio a dare notizia di noi. È innamorata persa di un amore ritrovato, un ragazzo dal capello coibentato chiamato Adam, come il primo uomo che cantava con le Formiche. Si baciano per ore, apparecchio contro apparecchio, provocando scintille e legamenti da spartito di Mozart, famoso anche per le palle di cioccolata e per non aver mai avuto una fidanzata,
Il figlio Marzio è nato prematuro in un Aprile gentile, odoroso del Maggio, che il due Giugno è festa nazionale e a Luglio presero la Bastiglia in una notte di fuochi e di zanzare. In questa abbondanza di mesi primavera-estate, lui colleziona brufoli e cotte maldestre, disperazione estrema di mamme e di maestre. Ha le ginocchia sbucciate come mele da macedonia ed è convinto che la Caledonia sia una terra piena di biancheria intima nazional-popolare. Ha un migliore amico, un pupazzo senza un occhio, ma fiero sostenitore dell'eco sostenibile e del diversamente abile. Marzio lo chiama Pupazzo, perché la sua fantasia l'ha persa che era ancora nuova, in un supermercato di Via Appia Nuova.
Sono tempi di segreti intercettati, che li stringi e non li tieni
Vi abbiamo appena presentato la famiglia Alieni.

lunedì 25 maggio 2009

Arriva Tony Plumbeo



Il vigile urbano ferma il traffico con una mano, certo.
E intanto sogna di canottiere e pedalò, di sedie a sdraio che sembra difficile chiuderle ma è tutta questione d'abitudine, signora mia.
E certi pensieri laterali ti portano a fare la cazzata, a perdere la bussola e trovarti preciso preciso all'appuntamento col dolore. Con quel tipo di dolore che ha molto a che spartire con la paura.
Tony Plumbeo ha parcheggiato la Due cavalli gialla in doppia fila, è vero.
Ma c'è modo e modo, tempo e tempo, in una consecutio di merito e cattiveria che la vita te la insegna che sei ancora piccolo e puzzi di latte e cognac.
Non è una doppia fila bastarda, davanti ai cassonetti e a un metro e mezzo dal Bar Jolly, sospesa nella terra di mezzo tra la cività e il mito. Non gli puoi rompere il cazzo gratis, a una Due cavalli gialla accurata e retrodatata, pulita di fresco e con l'arbre magic alla vaniglia, che il pino silvestre l'avevano finito e gli altri gusti so' da froci.
Il vigile urbano scuote la testa e sorride, un cattivo scritto e diretto da Sergio Leone, con la faccia di Sergio Citti e il savoir vivre di Otello Celletti. Che mica tutti si possono chiamare Sergio, signorina Margherita. Tira fuori il blocchetto, il vigile Bernardo de Bernardis, che i genitori avevano previsto per lui balli da debuttante in salotti bene e hanno ottenuto soltanto un tutore dell'ordine dalle palle piene. La lingua inumidisce il pollice in modo sexy e maschio, l'occhio detta, la penna scrive.
Tony Plumbeo esce dal bar Jolly col gratta e vinci da 200.000 euro ancora da sverginare. Sta cercando in tasca l'apposita moneta da cinque centesimi, che a quello serve il dischetto rossiccio, a nient'altro. E pure i cinquanta centesimi vanno a sparire: costano un euro le gomme, le vecchie duemila lire. E settantotto euro di multa per sosta vietata fanno quanto basta per lanciare una bestemmia bella articolata. Si parla di cristo, della madonna, di dio uno e trino, ci sono angeli ordinati, in colonna come i 44 gatti, ma molto più randagi e confusi dopo un'imprecazione piena di refusi.
Bernardo de Bernardis vorrebbe non avere mai ascoltato.
Ma è tardi, il tempo avanza, le orecchie incredule traducono fonemi mai cantati negli epici poemi di un qualunque bardo. Il tempo avanza, il tempo è bastardo.

lunedì 2 marzo 2009

Vuoti a rendere


Mario a settant'anni conosce l'amore sdentato, quello che poggia ogni sera il sorriso sul comodino.
In tempi non sospetti, quando si stava scarsi pure a difetti, aveva amato una signora sposata con la foga che si riserva a una fidanzata. La incontrava in alberghi dozzinali, dove consumava rapporti carnali e quaderni a quadretti, che riempiva di frasi sulla di lei bellezza:
"Luisa sei un angelo, per classe e riservatezza."
Lei sorrideva e sapeva di essere più vicina a un'eterna dannazione che a un posto da musa. Ma non le importava, quel poeta era un amante focoso, che sapeva tessere le lodi di un cuscinetto adiposo.
Venere botticelliana era la definizione preferita, ma soltanto dopo che lui le ebbe spiegato l'aggettivo, che non aveva niente a che spartire con il motto della moglie ubriaca. Botticelli era un pittore, come Giotto, quello dei pastelli a cera. E sembra che pure Canova, ai tempi suoi, non fosse il proprietario di un bar di classe al centro di Roma, ma uno scultore ambito a corte, in grado di rendere perfetto un fianco forte.
Mario aveva un modo strano di fare l'amore. Cominciava forte e finiva piano, come un'eruzione senza lapilli. Adesso morde il lenzuolo con le gengive e sa di avere dentro abbastanza storie per addormentare centomila figli.
Per questo i vecchi dormono poco. È tutta colpa delle avventure che esplodono dentro, ricordi romanzati, romanzi ricordati, feuilleton da Dumas padre da ordire per i nipoti.
Alla fine, prima di partire, siete pregati di rendere i vuoti.

martedì 10 febbraio 2009

Proprio una bella coppia



Muovi i fianchi, dai.
Lui se lo aspetta. Usa quel vecchio trucco dell’occhio socchiuso e della lingua saetta. Fallo sentire uomo, come non se ne fanno più. Poi mandalo a casa, che dormire da sola è il lusso migliore, dopo il caffè e la sigaretta.
Sesso e sonno è una combo micidiale, da esteta del control zeta e del controller digitale.
Eppure ci furono tempi in cui sognavi l’amore da abbracciare tipo orsetto, tutti nudi e coi calzini, sulla branda di nonna Benedetta.
Poi venne l’epoca degli esperimenti, della ginnastica addominale, se porto un’altra donna? se ti metti così?
Qualche cosa la salvi ancora, la confidenza, la fiducia, vederlo andare in bagno, l’ironia della sorte di stare ancora insieme dopo tutti questi anni. Il tempo ha scherzato con un principio di pancia, l’affetto ha piazzato un’amaca sopra la bilancia, i suoi capelli hanno salutato, i tuoi perso la luce. È questa la dolce morte, tramontare insieme col sorriso sulla faccia di chi crede che il tramonto non sia una minaccia.

venerdì 6 febbraio 2009

Auto scatto



Fatti una foto.
Seduta sul divano, come quella della pubblicità del cappuccino, col sorriso spezzato dalla paura di non piacerti. Che poi la fai vedere a lui e gli spieghi che lì non sei venuta bene.
E la mandi a quel tuo amico di Sassari, che saprà cosa farne.
Fatti una foto, da copertina di Fausto Papetti. Con la webcam puntata al petto, come qualcuno della legione straniera che chiede di telefonare a casa per poi morire contento.
Fatti una foto perfetta. Quella dove impazzi per i vicoli del centro, ti giri su te stessa e gli riservi quel sorriso speciale, metà vino fruttato, metà battito animale. Hai gli stivali e prometti amore, sei bella senza appello, hai appena baciato qualcuno, bacerai tra poco. E sarà bello.
Fatti una foto. Tu e altre amiche su una barca che non ci volevi salire. Sorriso a mezza bocca, l'altra mezza impegnata nel quotidiano affanno di respirare, pancia in dentro, petto in fuori. Pensi al suo nome che brilla al neon e a quando gli racconterai che l'hai pensato su un barca che ha tanto beccheggiato.
E al matrimonio con i vestiti della festa, che li rimetti il giorno dopo e credi di far parte di una società più alta, o almeno più austera. Fatti una foto, il giorno dopo. Spiegazzata, ma più sicura. Le mani del testimone dello sposo ancora addosso. Sorridi a quel ricordo, la schiena inarcata, l'orgasmo rubato, liquido di donna che non ha mai amato veramente.
Fatti una foto digitale, con la webcam, virata verde, come lo spettro di tuo padre o come uno spettro qualunque. Chiedi se c'è vita dopo la vita e aspetta la risposta finché campi. Armi, acciaio e malattie fanno la selezione. Fatti una foto, tu non sei il tipo che lotta, ma tornerai utile come testimone.

mercoledì 28 gennaio 2009

Vengo da lontano



Ho dormito su treni che odorano di gente perdente. Ho vinto al lotto, ho perso tempo, ho pareggiato un conto ed estratto un dente. Ho parlato con gente che non capiva il linguaggio orale, ma solo accidenti e testate. Ho riso a un funerale, pianto a un battesimo, sono rimasto neutro davanti a una donna nuda. Mi sono entusiasmato davanti a un titolo di Neruda: Confesso che ho vissuto. È di questo che sto parlando, in fondo. Dei danni collaterali che procura la rivelazione che al mondo esiste qualcuno un passo avanti a noi, qualcuno più bravo a ballare, a correre, a godersi un panorama e lo zucchero filato, a guardare e a essere contemplato. Il trucco è nelle mani veloci, che fanno sparire carte e comparire monete, mentre Silvan sorride, schiavo e padrone del suo parrucchino. La televisione aveva canali che li potevi contare sulla punta di due dita, mia nonna faceva pastiere e invocava dentiere, ma non si perdeva il momento più bello: famiglia riunita, e fin qui ci vuol poco… Natale in casa Cupiello, da ripetere per gioco, come una conta infinita. Uno, due e tre, chi non ha fatto, resta a me. E in questo nascondino da professionisti, io cercavo riparo nei soliti interstizi, tra le pieghe degli Anni Settanta, mentre Johnny Dorelli presentava Gran Varietà e Gloria Guida invocava la differenza di età. Sono scappato davanti a maniaci inesistenti e ho permesso a molta gente di chiamarmi amore, alla ricerca di un tempo mai nato, di uno iato tra fare sesso e trovare lei. Adesso io ci sono, adesso tu ci sei…