lunedì 26 settembre 2011

ognuno piange come sa

Non mi piacciono le cose di ridere. La frontiera, il bivacco, le bistecche alte tre dita, la vegetazione lussureggiante, i saloon pieni di bari e di donnine allegre, le canoe a pantofola, il grande fiume, le barche con la ruota, i duelli, i film western: questo mi piace. E le cene con gli amici (mi piacciono gli amici), le persone care. Basta che poi se ne vanno e rimango un po’ da solo, giusto il tempo per pensare che stavo meglio insieme a loro. Mi piace l’odore di un albo appena stampato, che lo allargo per bene, lo sprimaccio come un cuscino e lo rileggo ancora. C’è un refuso, dopo mi sentono. No. L’avevo letto pure io. E forse non è un refuso, il dizionario dice che va bene anche quella parola che prima non conoscevo, o l’avevo dimenticata come si fa con un’insalata dopo una bella fetta di carne. Ho un chilometraggio illimitato sulle spalle, vecchio motore diesel di quelli di una volta. Sono figlio di un gigante. Quando ho scritto la mia prima storia, mi tremavano i polsi. E se qualche volta, scrivendo, non ho avvertito quel tremore, be’, non stavo facendo un buon lavoro. La storia la porti a casa comunque, è qualcosa che sai fare. Ma non è quella che avevi pensato. Ecco, la differenza sta tutta qua: pensare una cosa e farla. Ci dovrebbe essere pochissima distanza, tra la scintilla e la fiamma. Solo così viene fuori un bel fuoco. Mi piace stare in redazione, guardare in faccia gli autori che passano a trovarmi, avere tempo per tutti. È il mio dovere. Ho da fare, perché ho scelto una vita senza sonno. Ma loro sono la mia fortuna, hanno teste che brillano nel buio come le copertine di certi fumetti americani. Brutti fumetti, perlopiù. Gli autori hanno sguardi bellissimi e tristi, come quelli che impreziosiscono il volto di donne che hanno perduto la loro avvenenza. Ma non si diventa mai ex-belle donne. Non si diventa mai ex autori. Ci sono momenti di pausa, interruzione della catena produttiva, ma il fuoco brucia ancora, in quei cuori di provincia. Ci sono macchine da scrivere, nascoste dentro a quei computer. E tanto cinema degli anni 40, letteratura d’accatto, polpettoni letti alla luce di una candela mentre i figli dormono e le mogli sognano un marito meno assente. Partire senza salutare equivale a non dover tornare. Oppure, significa che la partenza è poca cosa, che quando aprirete gli occhi sarò ancora alla mia scrivania, impegnato a nascondere il sorriso sotto la feritoia della bocca. Mi piacciono le feritoie, perché nascondono sempre la canna di un fucile. E se metti un fucile in una storia, quel fucile, alla fine, sparerà. Sprimaccio per bene un albo qualunque, annuso e mi beo. Ci vediamo in giro, chiunque tu sia. Si sta bene, insieme agli amici.

mercoledì 14 settembre 2011

Principessa, sono Luke Skywalker!

Mio padre parla come un tizio nel polmone d’acciaio e non si è fatto vivo per un sacco di tempo. Come tutti gli orfani e i figli dei separati, sono cresciuto in fretta e mi sono scelto strane figure maschili di riferimento: vecchi zii, che abitano in case parecchio fuori mano; nanerottoli verdi con le orecchie grandi; persone anziane intabarrate in abiti che rendono scomodo il combattimento. Ho perso il sonno per principesse racchie, ho conosciuto deserti e paludi, sono stato il biondino sciapo e l’Eletto, ho guidato un caccia stellare in un corridoio stretto. Sono nato a Polis Massa, vicino Polis Carrara, e per me c’era scritto un futuro da estrattore di marmi preziosi. Ma poi ho comprato due droidi al prezzo di uno e mi sono dato al difficile lavoro di diventare una leggenda popolare. L’altro, quello bello, lo hanno scelto per film divertenti, secondo me perché era parente del tizio delle macchine del sogno americano. Io ho fatto il doppiatore, perché la voce è importante, perché lo so fare bene. E dopo che ho sconfitto la Morte Nera, ho scelto di stare un po’ defilato, perché per qualunque altro ruolo, in fondo, sarei stato un po’ sprecato.