martedì 15 febbraio 2011

A mia figlia


Io ti ho vista chiaramente per la prima volta quando avevo circa sedici anni.
Mi ero comprato una chitarra acustica e avevo imparato a strimpellarla un po’. Ricordo ancora quel giorno, il giorno in cui sei, in un certo senso, nata.
Ero seduto sul divano brutto di una casa di vacanze in affitto, in una località di mare a troppi chilometri dal mare, perché io e tua nonna più di quello non potevamo permetterci. Cominciai a scriverti una canzone: sol minore, la maggiore, una sequenza ardita per i miei livelli.
Voglio che mia figlia abbia gli occhi e belli e riflessi di ghiacciai eterni tra i capelli…
Be’, era tutto vero. Forse non era una gran canzone, ma era per te. La lettera più bella che un uomo potrà mai scriverti. O la seconda più bella, lo spero tanto. Poi ti ho dimenticata, troppo impegnato a cercarti una madre. Ci ho messo diciotto anni a trovarla, ma la canzone lavorava dentro e resisteva a tutto. Ogni tanto, la canticchiavo tra me, o la facevo ascoltare a qualcuno. Lo facevo per non dimenticare che ti dovevo una possibilità di nascere.
Voglio che quegli occhi le chiariscano il mistero e le facciano distinguere l’amore, quello vero…
L’amore vero. Esplode ogni volta che sospendi l’incredulità, come davanti un film perfetto, come un libro benedetto che ti insegna cose che già sai. Ti innamorerai di chi non ti amerà allo stesso modo e sarai comunque felice, ispirata esploratrice di sentimenti male assortiti. Piangerai e farai piangere, entrerai in camere sbagliate e renderai giusto ogni tuo errore.
E voglio che quegli occhi le si bagnino di pioggia, di acqua di fiume, di lacrime di gioia. E voglio che la sua immagine, riflessa in uno stagno, non tremi come ora che le sto facendo il bagno…
Avevo in mente quadretti di vita da mulino bianco, ma ci stavo azzeccando.
Sei nata nel luglio del 2000, ho assistito al parto. Il dottore, dopo averti sciacquato sommariamente, ti ha piazzato in braccio a me. Ti ho impugnato come fossi un aquilone, troppo leggera per appartenere al genere umano, pronta a volare via al primo soffio di vento. Mi hai piantato gli occhi in faccia, quegli occhi strepitosi. E tutto è cambiato per sempre, dentro me.
Sei bellissima, più di qualunque donna io abbia mai visto e osato sognare.
Voglio che mi dica quando è innamorata, anche se il suo amore sarà la mia vecchiaia…
Ecco fatto. Il solito uomo medio che fa un figlio per sopravviversi e proiettarsi oltre. No. Voglio sapere tutto, di te, senza chiedere niente. Voglio intuire i processi che articoli sotto quella fronte spaziosa, voglio spiare il film che gli occhi proiettano all’indietro, sullo schermo teso della tua immaginazione.
Hai avuto pochi capelli, per il primo anno e mezzo. Testa di mela rotonda e perfetta, lineamenti dolcissimi, occhi grandi e verdi. Ma pochi capelli, proprio come tuo padre. Hai cominciato a parlare prestissimo, rimavi a due anni, scribacchiavi a tre. La tua prima pipì senza pannolino l’hai fatta in braccio a me, mentre ti dondolavo in un giardinetto di un’altra casa in affitto, stavolta vicinissima al mare. Sei andata a scuola, tornata da scuola, hai pianto per la scuola, sorriso alla fine della scuola. E tuo padre ha una memoria troppo grande per non fare il confronto con le sue esperienze, avvenute in quella stessa scuola, che ha soltanto cambiato nome: Giuseppe Verdi, prima; Gianni Rodari, adesso. Un buon cambio di nome, se ci pensi.
Voglio che telefoni, se tarda un po’ la sera. Ma voglio che la sera non tardi quasi mai, perché devo baciarla, prima di dormire. Perché devo baciarla e poi dormire…
Sì. Finisce così. Come tutte le storie. Con uno che va a dormire e un altro che veglia sul suo sonno. Con uno che fa tardi, magari in macchina, di notte. E l’altro che conta le ore, aspetta quel messaggio per chiudere gli occhi a sua volta, sentinella innamorata per sempre di un amore che non può far altro che lasciare andare. Perché sono questi gli amori per cui vale la pena vivere. Sono questi gli amori per cui vale la pena piangere. Quelli che ci fanno diventare grandi senza crescere mai veramente. Quelli segreti, che nascondiamo alla gente, che non capirebbe. Sappi che tuo padre ha amato molto, nella vita. Ed è stato amato, anche bene. E che adesso, in questa notte di febbraio, sente con forza e con chiarezza che tu non sei sua. Ma lui è tuo. Io sono tuo. Per sempre.

venerdì 4 febbraio 2011

Nessuna è come lei



Non so se l’avete mai vista mentre guarda un film. La luce dello schermo le rimbalza sugli occhiali, creando un multisala tutto per lei. Sorride, anticipa le battute, prepara lo stupore, lo tende forte e poi lo lascia andare con uno schiocco secco, da frusta di gaucho argentino.
Non so se l’avete guardata mentre legge un libro. Si morde le labbra, giocherella con le dita, sospira a tempo, solleva gli occhi per capire, subacqueo che torna a galla troppo velocemente. Niente embolo, però. Solo emozione per aver compreso il mio gioco di scrittore. Salta le righe, a volte, ma le rilegge poi.
Non so se l’avete osservata quando cammina. È un fotogramma accelerato, un cartone animato, sensuale, anche se non vuole. E i passi che precedono il momento in cui si ferma, quelli, sono più veloci e ravvicinati, come se arrivare un istante prima le concedesse il tempo per tagliare una miccia, fermare un detonatore, baciare un compagno perduto o trovarne uno migliore.
Non so se avete avuto la fortuna di assistere allo spettacolo del suo sonno. Comincia con modalità da svenimento, perché in lei c’è quel meccanismo da bambola: in piedi e seduta, occhi aperti; sdraiata, le palpebre serrate, a garantire un effetto-tenda e una preparazione immediata alla fase Rem.
Non se se l’avete mai accompagnata in un locale. Sorride, fuma e saluta, mani in tasca, sguardi a pesca di altri sguardi, sussurri e grida, risate trattenute che sfociano in sorrisi, vestita bene per chi apprezza e malissimo per chi ha gusti decisi da armanidolce&gabbana. Ha stivali caldi, pantaloni sgargianti ed estivi, magliette a strati, giubbotto di pelle, berretta d’ordinanza, truccata mai. E sotto, io lo so, porta canottiere senza colore, un intimo da nonna, una pelle che se la rovesci è un guanto e se la mordi è seta.
Non so se l’avete mai vista, non so se la vedrete mai. Io ve lo auguro come si augura un viaggio bello, un’esperienza da fare una volta nella vita, una guarigione, un buongiorno, una notte serena, una figurina mancante, una vita a Space Invaders, un soldo in un pozzo o in una fontana, una cena tra amici, un treno che va dalla montagna al mare, una commedia all’italiana, l‘incontro con un disco epocale, un paio di labbra complementari alle vostre, un pesce pescato e poi rimesso nel fiume, un incontro notturno, un bambino appena nato, l’odore del pane, il sesso con amore, l’amore in generale, un invito a sedere alla mensa degli dei. Se non l’avete capito, è solo colpa mia. Nessuna è come lei.