martedì 27 dicembre 2011

Le Gris

Marcello Castelli aprì le imposte e respirò l’aria del mattino con la canottiera rossa e la sagacia autorevole di un bagnino di Fregene. - Oggi piove. Rammaricandosi un poco di non essere un ammaestratore di pedalò, si diresse verso il bagno col passo malfermo di chi ha troppo navigato. 45 anni, due mesi e tre giorni. È un bel viaggio, per mare e per terra. È tempo sufficiente per cercare la via dell’Oriente, le sorgenti del Nilo, per consacrarsi a qualcosa, per disperdersi nel vento. Crema da barba Taylor, alla Lavanda. Pennello di tasso. Rasoio a farfalla con lamette Astra. Marcello parte forte con la rasatura, per rimandare qualcosa che non gli va di fare. - Impegnarsi in un lavoro a mano libera storna i pensieri, scontorna il problema e lo posiziona più distante, quasi fosse una notizia del telegiornale e non un fatto vero. Pelo, contropelo e una terza passata alla Stenmark dei bei tempi, linee strette e rapide, a sorprendere i peli più riottosi e astuti. Dopobarba Floid, ovvio. La felicità è nelle piccole cose, disse qualcuno che non aveva altro. Colazione con latte, caffè e biscotti Misura. - Mettiamo un po’ di musica. Parlare da soli è il privilegio dei semplici, o di chi ha paura del silenzio, di chi compila una lista di cose da fare, o di chi aveva qualcuno con cui parlare fino a poco tempo prima. - Nicole Renaud. Sì. Partono le note di Coleurs, Le Gris. Una soprano francese, alle sette e un quarto di mattina, può mal disporre la giornata di chiunque o raddrizzare la notte incolore di un professore di Letterature Comparate. - Raddrizzami la notte incolore, Nicole. Le Gris è un non colore, è lo spazio interstiziale tra il bianco e il nero, decostruisce e allaga gli occhi. Quella voce, poi, sapeva seminare a grigio il campo rugiadoso della mente di Marcello. Un uomo a modo, per tutti. Un uomo interessante, per molti. Un uomo che ha vissuto con la sordina inserita, col silenziatore sulla canna, con l’ovatta sulle parole. Questo lo pensava lui, che di se stesso era un esperto, ma non un estimatore, come un collezionista compulsivo che non ama il proprio accumulare, ma che non esiste senza la polvere che tiene insieme le cose che ha messo insieme, il ciarpame della memoria La polvere è grigia. Principe di Galles blu e celeste, camicia azzurra, cravatta blu, scarpe testa di moro: Marcello si studiò nello specchio e si valutò venticinque su trenta, perché lui era sempre stato molto severo, soprattutto quando vestiva i panni più trasandati di un giovane assistente di medie speranze. - Vada per il venticinque. Lo prendo.

giovedì 6 ottobre 2011

Il suono cupo del corno

Forza. Loro sono tre, noi più di dieci. Strappiamogli il vessillo, bruciamo la bandiera, riempiamoli di botte. Le nocche che affondano nelle parti molli, la testa che mette alla prova le ossa del naso, le unghie che strappano carne di cui non dobbiamo nutrirci. Perdita del senso, ecco cosa. Non è per cacciare, che siamo in branco. Eppure c’è tutto lo schema della caccia. C’è una notte di cemento e neon, ci sono le prede, che alzano la voce per non sentire il monologo interiore della paura. E ci siamo noi, colli di bottiglia e coltelli, tirapugni e bastoni. Io sono il corno dalle note basse e cupe, quello che suona la carica al reggimento schierato. Sono il capobranco, ma so già che uno più giovane di me banchetterà presto col mio cuore cattivo. E allora sarò storia minore, un aneddoto da bar, un ricordo ingigantito da chi mi ha battuto e piccolissimo per chi ha creduto di dovermi obbedienza. Ho una donna, a casa. Il vento è pieno del suo profumo, colpo basso per chi non deve avere un porto a cui ritornare, ma solo darsene circondate da scogli appuntiti cui rubare un approdo quando mette a tempesta. Roma è un portachiavi con gli anelli arrugginiti. Perdita del senso: chiavi che non aprono niente. Perché non ci sono porte, ma solo ferite, piaghe purulente di un Egitto straziato. E io sono il primo erede maschio, figlio unico per la spada di Erode. Forza. Loro sono tre, noi più di dieci. Tutti, egualmente, soli.

lunedì 26 settembre 2011

ognuno piange come sa

Non mi piacciono le cose di ridere. La frontiera, il bivacco, le bistecche alte tre dita, la vegetazione lussureggiante, i saloon pieni di bari e di donnine allegre, le canoe a pantofola, il grande fiume, le barche con la ruota, i duelli, i film western: questo mi piace. E le cene con gli amici (mi piacciono gli amici), le persone care. Basta che poi se ne vanno e rimango un po’ da solo, giusto il tempo per pensare che stavo meglio insieme a loro. Mi piace l’odore di un albo appena stampato, che lo allargo per bene, lo sprimaccio come un cuscino e lo rileggo ancora. C’è un refuso, dopo mi sentono. No. L’avevo letto pure io. E forse non è un refuso, il dizionario dice che va bene anche quella parola che prima non conoscevo, o l’avevo dimenticata come si fa con un’insalata dopo una bella fetta di carne. Ho un chilometraggio illimitato sulle spalle, vecchio motore diesel di quelli di una volta. Sono figlio di un gigante. Quando ho scritto la mia prima storia, mi tremavano i polsi. E se qualche volta, scrivendo, non ho avvertito quel tremore, be’, non stavo facendo un buon lavoro. La storia la porti a casa comunque, è qualcosa che sai fare. Ma non è quella che avevi pensato. Ecco, la differenza sta tutta qua: pensare una cosa e farla. Ci dovrebbe essere pochissima distanza, tra la scintilla e la fiamma. Solo così viene fuori un bel fuoco. Mi piace stare in redazione, guardare in faccia gli autori che passano a trovarmi, avere tempo per tutti. È il mio dovere. Ho da fare, perché ho scelto una vita senza sonno. Ma loro sono la mia fortuna, hanno teste che brillano nel buio come le copertine di certi fumetti americani. Brutti fumetti, perlopiù. Gli autori hanno sguardi bellissimi e tristi, come quelli che impreziosiscono il volto di donne che hanno perduto la loro avvenenza. Ma non si diventa mai ex-belle donne. Non si diventa mai ex autori. Ci sono momenti di pausa, interruzione della catena produttiva, ma il fuoco brucia ancora, in quei cuori di provincia. Ci sono macchine da scrivere, nascoste dentro a quei computer. E tanto cinema degli anni 40, letteratura d’accatto, polpettoni letti alla luce di una candela mentre i figli dormono e le mogli sognano un marito meno assente. Partire senza salutare equivale a non dover tornare. Oppure, significa che la partenza è poca cosa, che quando aprirete gli occhi sarò ancora alla mia scrivania, impegnato a nascondere il sorriso sotto la feritoia della bocca. Mi piacciono le feritoie, perché nascondono sempre la canna di un fucile. E se metti un fucile in una storia, quel fucile, alla fine, sparerà. Sprimaccio per bene un albo qualunque, annuso e mi beo. Ci vediamo in giro, chiunque tu sia. Si sta bene, insieme agli amici.

mercoledì 14 settembre 2011

Principessa, sono Luke Skywalker!

Mio padre parla come un tizio nel polmone d’acciaio e non si è fatto vivo per un sacco di tempo. Come tutti gli orfani e i figli dei separati, sono cresciuto in fretta e mi sono scelto strane figure maschili di riferimento: vecchi zii, che abitano in case parecchio fuori mano; nanerottoli verdi con le orecchie grandi; persone anziane intabarrate in abiti che rendono scomodo il combattimento. Ho perso il sonno per principesse racchie, ho conosciuto deserti e paludi, sono stato il biondino sciapo e l’Eletto, ho guidato un caccia stellare in un corridoio stretto. Sono nato a Polis Massa, vicino Polis Carrara, e per me c’era scritto un futuro da estrattore di marmi preziosi. Ma poi ho comprato due droidi al prezzo di uno e mi sono dato al difficile lavoro di diventare una leggenda popolare. L’altro, quello bello, lo hanno scelto per film divertenti, secondo me perché era parente del tizio delle macchine del sogno americano. Io ho fatto il doppiatore, perché la voce è importante, perché lo so fare bene. E dopo che ho sconfitto la Morte Nera, ho scelto di stare un po’ defilato, perché per qualunque altro ruolo, in fondo, sarei stato un po’ sprecato.

martedì 19 luglio 2011

scrittori maschi, scrittrici femmine...



Unendo tutti insieme i fogli formato A4 che ho riempito di parole in 24 anni di lavoro, credo sia semplice, camminandoci sopra, percorrere il giro del mondo. Questa premessa serve per dire che io posso non essere uno scrittore bravo, considerato o da considerare. Ma scrivo. Altri, invece, hanno un ego che il giro del loro mondo io non ce la faccio proprio a farlo. E scrivono, pure loro. Se sono maschi, scrivono così:

Freddo.
O troppo caldo.
Normale, mai.
Mia nonna fa la pastiera con la ricetta di sua nonna, mettendo quattro generazioni tra la sua esperienza in cucina e quella che io quando assaggio quel capolavoro. Ho sette anni, però.
Non sono così piccolo da non capire quanto vale una pastiera del genere.
Freddo, dicevamo.
Poggio i palmi delle mani ai vetri della cucina e ci rimane l’impronta.
In quella traccia trasudata, trasogno e trasalgo.
Rivedo un tram, in una fredda mattina di febbraio.
Io e mia nonna, su quel tram, stiamo andando a visitare una chiesa del centro di Roma. Non so perché. Una chiesa a settimana, da tutta una vita. Sette anni di chiese, pochi giorni di guai. E niente che una buona pastiera non possa risolvere.
Caldo, adesso.
Perché i ricordi sono roba calda, anche se non piacciono tanto al giovane Holden.
Che tutti volevano che Salinger morisse, per poterne parlare male come uomo, visto che come scrittore sono tutti figli suoi.
Il tram rallenta, tra uno stridio di freni. Io mi riscuoto da un sogno galleggiante. Un sogno nel sogno è un portachiavi magico. Sognavo di mio padre, di quando andavamo a pesca di trote al laghetto sportivo. Muratti e pazienza, che abbocca alla lenza la trota grassoccia. Facciamo bisboccia.

Le femmine, invece, scrivono così:

Sento una lama nello stomaco, quando rivedo Marco. E ripenso a quelle sere d’estate in cui simulava il mio orgasmo, pensando a raggiungere il suo. Mi hai usata, lasciata, tradita, ripresa. Mi hai messo in un angolo, puntaspilli il mio cuore e tu giovin signore con lo spadino sempre in mano. Ma sono viva e vedo gente. Sento la mia umidità relativa che innaffia giardini di ragazzi migliori di te. Sento il loro afrore di maschi e vedo quei sorrisi micidiali insorgere come brina su bocche carnose. E capisco di avere un potere, su di loro. Quel potere che mi toglievi a letto, al ristorante, in mezzo alla gente, durante le ferie, quando mettevi dei paletti da scout geniale tra il tuo mondo erettile e il mio impero di provincia, un buco da riempire soltanto se ne avevi voglia. E delle mie, di voglie, vietato parlare. La Bibbia ti dava ragione, tua madre lo stesso. Sento una lama nello stomaco, ma il canto del Lama mi aiuta a fare quello che avrei dovuto fare due anni fa. Ti sputo in faccia, come un lama. E sono felice.

martedì 7 giugno 2011

La buona novella




Il Signore dà, il Signore toglie.
Il prete lo dice e ci crede, perché è allenato alla menzogna consolatrice: te la danno in un kit, insieme all’abito talare.
La malattia è un premio, una prova che il Signore offre ai suoi figli prediletti. Ecco, questa non so se la reggo. Trent’anni di sclerosi multipla, figlia prediletta stocazzo. Mia madre lo guarda come si guardano i fiori finti, che sono belli ma non ballano, proprio come lei. Sorride, perfino. Io tendo a far capire al parroco che la benedizione pasquale è andata a buon fine, come una transazione bancaria. Lo accompagno alla porta e lui si volta per dirmi un’ultima cosa. Ha l’aria complice, stavolta. Lo immagino senza quel vestito nero, seduto su una tovaglia da pic-nic, con la bocca sporca di maionese. Sono pronto alla confidenza.
- Sua madre è una donna molto forte.
Annuisco.
- Ha mai pensato di portarla a messa?
Annuisco ancora come i cagnolini da cruscotto.
- La porti. Si sta bene, è pieno di brava gente.
Mi porge la mano.
Ora. Io sono per la stretta asciutta, rapida e forte. Da uomo. E infatti sono l’uomo di casa, cazzo. Quello che difende l’uscio e porta i soldi a casa. Quello che caccia con la clava e che monta i mobili dell’Ikea. Quella mano è un pesce marcito. Ma la prendo con deferenza, quasi fosse un manufatto alieno capace di svelare il segreto della vita.
- Padre, posso farle una domanda?
- Certo.
- Fabrizio De Andrè. L’infanzia di Maria. L’ha mai ascoltata?
Strizza gli occhi, come Clint Eastwood quando prende la mira.
- No. Credo di non averne mai avuto l’occasione.
- Ecco. La ascolti. Si faccia un regalo.
- Lo farò.
- No. Non lo farà.
E mia madre a messa non ce la porto.
Un’occasione di salvezza ciascuno, sprecate per la paura di fare un passo di lato.
Ah, per la cronaca: mia madre, di passi, non ne poteva fare. Il prete sì.

mercoledì 25 maggio 2011

Lamento di un vecchio lupo grigio



78 anni e sentirli tutti. Ho acciacchi che prima erano solo indolenzimenti. Non mi ricordo che ho mangiato a pranzo, ma so tutto di quella ragazza di Bologna, mezza pazza e senza vergogna, era del 1940 e mi insegnò cose odorose e la differenza tra uscire ed entrare. Ho un figlio e due nipoti, me li godo come gelati a maggio, li esonero dal natale, pasqua con chi vogliono loro, il mio compleanno è una telefonata breve, mi portano al mare almeno due volte l’anno. Mia moglie è andata, tanti anni fa. Viva e arzilla, tranquilli. Sta con uno di Bergamo, che ha la pensione e l’accompagno e una casa al lago. Io ho una macchina da lavare il sabato, la copro con una copertina grigia: 850 special, grigia anche la macchina. La gente mi dà spesso ragione, a che serve discutere con uno che ti batte in esperienza e che non sa niente delle nuove scoperte della scienza? Maestro di vita, ma senza alunni, leggo il giornale al parco che te lo sfoglia il vento, insieme a uno che non lo paga, ma sbircia contento. Te lo ricordi Domenghini? E Gramsci? Lui annuisce, senza denti, e vedo che viaggia con la mente nei posti che conosco io, quando si fumava al cinema e sui tram chiamati desiderio inatteso. Non gioco a bocce, non vado a ballare, mi concedo il piacere sapido della lettura, sorrido ai vigili urbani e alle signore col cane e sento di piacere ancora. Ma sarà vero? O è un ricordo prodigioso di me stesso con gli zigomi alti e le rughe piccoline, messe intorno agli occhi come reti da farfalle? La vecchiaia è quando aumenta la differenza tra il dentro e il fuori, quando non puoi sospirare in attesa di giorni migliori. Ogni ora è un’ora in più, questo fatto è vero dal giorno che nasciamo. E, in fondo, la data di scadenza non la vediamo mai. Ne prendiamo atto, a un certo punto. Sorrido, stavolta a vuoto. Sono usato, tenuto bene, vecchio ma non consunto. Mi lavo e mi metto sulle gambe una copertina grigia, proprio come i miei capelli. I nostri erano tempi diversi, signori miei. Non più brutti, certo. Ma neanche tanto più belli.

martedì 26 aprile 2011

Le cose che so di te



Infarto, lo chiamano. Il secondo ti ha portato via. Il primo ha soltanto preoccupato una famiglia, messo a posto delle pendenze, riunito gli amici. Ma il secondo è stato un proiettile d’argento nel tuo cuore licantropo. Le cose che so di te sono molto poche. Buon calciatore, ottimo giocatore di scacchi, ti sei mantenuto col poker quando la fame non era un nome più breve affibbiato all’appetito. Avido lettore, hai fatto il liceo e ti sei iscritto all’università nei famosi tempi non sospetti. Eri del 1933, adesso avresti avuto 78 anni. Quando muore una persona di 78 anni, ci si dispiace un bel po’: giovane, si dice in coro. Tu sei morto a 44. Avevi un parrucchino, me lo ricordo bene, e occhiali dalla montatura spessa. Eri un uomo col borsello, fumavi le HB e io andavo a comprartele sfuse, che il tabaccaio le metteva dentro una bustina di carta e mi diceva che non dovevo prendere quel vizio. Andavamo insieme dal vini e oli a bere la spuma. E al tuo club, dove giocavo a ping-pong da solo, mentre tu facevi il drago col tresette. Una volta mi hai portato da una tua amica, che mi ha tenuto mentre tu svolgevi qualche commissione. Era una bella signora e si provò un vestito davanti a me, dicendomi di non guardare. Guardai. Una volta a settimana, andavamo a trovare i tuoi genitori, in una casa piena di zii, di cugini e di donne vestite di nero. Ricordo zia Sabetta, vecchia come il mondo, ma forse nemmeno troppo. Siccome aveva il Parkinson, le facevate tirare la sfoglia per la pasta: almeno, quel tremore serviva a qualcosa. Da ragazzo, leggevi di notte al lume di una candela quegli stessi libri che io ho cominciato a divorare a undici anni, quando te ne sei andato: i Maestri russi, Henry Miller, Sciascia, Calvino. Dentro a quelle meraviglie, cercavo scampoli di te. C’erano. Adesso lo so. E c’eri quando i padri dei miei amici mi portavano al cinema e allo stadio. Il cinema. Vedevamo due film per volta, uno scelto da me e uno da te. Ricordo un film con Bud Spencer e Terence Hill e subito dopo Il dottor Stranamore. Sono quelle giornate che ti cambiano la vita, perché capisci che la leggerezza abita nella città dell’intelligenza. Ricordo le giostre tristi, i circhi tristi, ma il tutto veniva riscattato dal tuo umorismo tagliente, che forse in parte ho ereditato. Ho le tue stesse mani. Ah, e il diabete. Ricordo una casetta nel bosco, che tu e mamma la volevate comprare. Ma vi mancò il coraggio. Ve ne serviva già troppo per fronteggiare la malattia che costringeva lei sulla sedia a rotelle e te a casa, ad accudirla. Perdonato. Ricordo bene quel 26 aprile del 1977. Erano le sette di mattina e io sentii dei rumori concitati. Tuo fratello ti stava facendo la respirazione bocca a bocca, mamma urlava. Io capii subito. Presi una sedia e la sbattei per terra, ma piano. Ero un bambino molto educato. Poi, quella stessa mattina, mi comprai un Devil Gigante. E tutto ebbe inizio…

lunedì 28 marzo 2011

ce la posso fare



Creature mortali, a caccia di eterno. Bambini graffiati in faccia dal padreterno e sulle ginocchia dal diavolo nero. Io c’ero. Ci sono sempre stato, sono vecchio come il pane di ieri l’altro. Furbo, non scaltro. Cresciuto per strada, con le mani aperte, pronte all’abbraccio e alla lotta coreografata, capoeira senza contatto, impegno politico apparentemente distratto. Poi lei ti bacia e scopri che c’è tempo per altre cose, per esplorazioni prodigiose. Scopri bottoncini di carne fremente, fai tardi a calcetto, la macchina è un letto, la notte una coperta clemente. E intanto scrivi, alleni i muscoli interiori, diventi il ragazzo speciale, l’amico fedele, il compagno amorevole, l’amante arrendevole. Sei portato, per le cose del sesso, perché sei curioso all’eccesso e altrettanto rispettoso. Le mani hanno occhi, gli occhi hanno dita, nello stereo gira la tua canzone preferita. Lei cambia volto e corpo ogni tre mesi, è una donna qualunque da cantare piano, forte di fianchi, bianca di pelle, appostata in un pub o in mezzo alla strada. Le sorridi ed è tua, che sei traghettatore, la porti da un amore sbagliato a un altro, migliore. Sei bagnino, salvagente, idraulico di notte, verdeggiante poeta che copre i suoi sogni di foglie e di rami. Sei troppo, per lei. Non ti abbraccia mai tutto. Sei grasso, non brutto. Hai pancia importante, da uomo di sostanza. Sostanze, ben poche, rubate alla scrittura. Hai freddo, da solo. A volte, hai paura. Ma stampi di continuo un sorriso geniale, che tutto va bene, che niente fa male. Nessuno le ha mai accarezzate come fai tu, adorando quei corpi, ascoltando il respiro, il movimento involontario di energie segrete. Per questo ti cercano, per questo vai bene. Quando prenoti il futuro, però, c’è sempre il cappello di un altro uomo. Torni a casa e gridi. Ma non esce alcun suono. Ecco, oggi va così. Entra forte ed esce piano. Sole o luna, sempre di luce si tratta. Stella o lampadina, ce n’è sempre abbastanza per leggere un libro migliore dei tuoi. Non chiudo la stalla, che escano i buoi. Sei andata via, ma c’è ancora il tuo odore. Lui non è meglio di me, purtroppo lo sai. Ma è qualcuno su cui fantasticare. Pur sempre un buon lago, se non puoi avere il mare. Io come sto, mi chiedi. Tranquilla, ce la posso fare. Non sarà facile, ma le cose facili non portano a niente. Ma sarà facile, facilissimo e persino divertente, amare il tuo ricordo passato come fosse il migliore amore possibile del mio solitario presente.

martedì 15 febbraio 2011

A mia figlia


Io ti ho vista chiaramente per la prima volta quando avevo circa sedici anni.
Mi ero comprato una chitarra acustica e avevo imparato a strimpellarla un po’. Ricordo ancora quel giorno, il giorno in cui sei, in un certo senso, nata.
Ero seduto sul divano brutto di una casa di vacanze in affitto, in una località di mare a troppi chilometri dal mare, perché io e tua nonna più di quello non potevamo permetterci. Cominciai a scriverti una canzone: sol minore, la maggiore, una sequenza ardita per i miei livelli.
Voglio che mia figlia abbia gli occhi e belli e riflessi di ghiacciai eterni tra i capelli…
Be’, era tutto vero. Forse non era una gran canzone, ma era per te. La lettera più bella che un uomo potrà mai scriverti. O la seconda più bella, lo spero tanto. Poi ti ho dimenticata, troppo impegnato a cercarti una madre. Ci ho messo diciotto anni a trovarla, ma la canzone lavorava dentro e resisteva a tutto. Ogni tanto, la canticchiavo tra me, o la facevo ascoltare a qualcuno. Lo facevo per non dimenticare che ti dovevo una possibilità di nascere.
Voglio che quegli occhi le chiariscano il mistero e le facciano distinguere l’amore, quello vero…
L’amore vero. Esplode ogni volta che sospendi l’incredulità, come davanti un film perfetto, come un libro benedetto che ti insegna cose che già sai. Ti innamorerai di chi non ti amerà allo stesso modo e sarai comunque felice, ispirata esploratrice di sentimenti male assortiti. Piangerai e farai piangere, entrerai in camere sbagliate e renderai giusto ogni tuo errore.
E voglio che quegli occhi le si bagnino di pioggia, di acqua di fiume, di lacrime di gioia. E voglio che la sua immagine, riflessa in uno stagno, non tremi come ora che le sto facendo il bagno…
Avevo in mente quadretti di vita da mulino bianco, ma ci stavo azzeccando.
Sei nata nel luglio del 2000, ho assistito al parto. Il dottore, dopo averti sciacquato sommariamente, ti ha piazzato in braccio a me. Ti ho impugnato come fossi un aquilone, troppo leggera per appartenere al genere umano, pronta a volare via al primo soffio di vento. Mi hai piantato gli occhi in faccia, quegli occhi strepitosi. E tutto è cambiato per sempre, dentro me.
Sei bellissima, più di qualunque donna io abbia mai visto e osato sognare.
Voglio che mi dica quando è innamorata, anche se il suo amore sarà la mia vecchiaia…
Ecco fatto. Il solito uomo medio che fa un figlio per sopravviversi e proiettarsi oltre. No. Voglio sapere tutto, di te, senza chiedere niente. Voglio intuire i processi che articoli sotto quella fronte spaziosa, voglio spiare il film che gli occhi proiettano all’indietro, sullo schermo teso della tua immaginazione.
Hai avuto pochi capelli, per il primo anno e mezzo. Testa di mela rotonda e perfetta, lineamenti dolcissimi, occhi grandi e verdi. Ma pochi capelli, proprio come tuo padre. Hai cominciato a parlare prestissimo, rimavi a due anni, scribacchiavi a tre. La tua prima pipì senza pannolino l’hai fatta in braccio a me, mentre ti dondolavo in un giardinetto di un’altra casa in affitto, stavolta vicinissima al mare. Sei andata a scuola, tornata da scuola, hai pianto per la scuola, sorriso alla fine della scuola. E tuo padre ha una memoria troppo grande per non fare il confronto con le sue esperienze, avvenute in quella stessa scuola, che ha soltanto cambiato nome: Giuseppe Verdi, prima; Gianni Rodari, adesso. Un buon cambio di nome, se ci pensi.
Voglio che telefoni, se tarda un po’ la sera. Ma voglio che la sera non tardi quasi mai, perché devo baciarla, prima di dormire. Perché devo baciarla e poi dormire…
Sì. Finisce così. Come tutte le storie. Con uno che va a dormire e un altro che veglia sul suo sonno. Con uno che fa tardi, magari in macchina, di notte. E l’altro che conta le ore, aspetta quel messaggio per chiudere gli occhi a sua volta, sentinella innamorata per sempre di un amore che non può far altro che lasciare andare. Perché sono questi gli amori per cui vale la pena vivere. Sono questi gli amori per cui vale la pena piangere. Quelli che ci fanno diventare grandi senza crescere mai veramente. Quelli segreti, che nascondiamo alla gente, che non capirebbe. Sappi che tuo padre ha amato molto, nella vita. Ed è stato amato, anche bene. E che adesso, in questa notte di febbraio, sente con forza e con chiarezza che tu non sei sua. Ma lui è tuo. Io sono tuo. Per sempre.

venerdì 4 febbraio 2011

Nessuna è come lei



Non so se l’avete mai vista mentre guarda un film. La luce dello schermo le rimbalza sugli occhiali, creando un multisala tutto per lei. Sorride, anticipa le battute, prepara lo stupore, lo tende forte e poi lo lascia andare con uno schiocco secco, da frusta di gaucho argentino.
Non so se l’avete guardata mentre legge un libro. Si morde le labbra, giocherella con le dita, sospira a tempo, solleva gli occhi per capire, subacqueo che torna a galla troppo velocemente. Niente embolo, però. Solo emozione per aver compreso il mio gioco di scrittore. Salta le righe, a volte, ma le rilegge poi.
Non so se l’avete osservata quando cammina. È un fotogramma accelerato, un cartone animato, sensuale, anche se non vuole. E i passi che precedono il momento in cui si ferma, quelli, sono più veloci e ravvicinati, come se arrivare un istante prima le concedesse il tempo per tagliare una miccia, fermare un detonatore, baciare un compagno perduto o trovarne uno migliore.
Non so se avete avuto la fortuna di assistere allo spettacolo del suo sonno. Comincia con modalità da svenimento, perché in lei c’è quel meccanismo da bambola: in piedi e seduta, occhi aperti; sdraiata, le palpebre serrate, a garantire un effetto-tenda e una preparazione immediata alla fase Rem.
Non se se l’avete mai accompagnata in un locale. Sorride, fuma e saluta, mani in tasca, sguardi a pesca di altri sguardi, sussurri e grida, risate trattenute che sfociano in sorrisi, vestita bene per chi apprezza e malissimo per chi ha gusti decisi da armanidolce&gabbana. Ha stivali caldi, pantaloni sgargianti ed estivi, magliette a strati, giubbotto di pelle, berretta d’ordinanza, truccata mai. E sotto, io lo so, porta canottiere senza colore, un intimo da nonna, una pelle che se la rovesci è un guanto e se la mordi è seta.
Non so se l’avete mai vista, non so se la vedrete mai. Io ve lo auguro come si augura un viaggio bello, un’esperienza da fare una volta nella vita, una guarigione, un buongiorno, una notte serena, una figurina mancante, una vita a Space Invaders, un soldo in un pozzo o in una fontana, una cena tra amici, un treno che va dalla montagna al mare, una commedia all’italiana, l‘incontro con un disco epocale, un paio di labbra complementari alle vostre, un pesce pescato e poi rimesso nel fiume, un incontro notturno, un bambino appena nato, l’odore del pane, il sesso con amore, l’amore in generale, un invito a sedere alla mensa degli dei. Se non l’avete capito, è solo colpa mia. Nessuna è come lei.

martedì 4 gennaio 2011

Canto del mio corpo lento




Canto del mio corpo lento

La mia bocca ha troppo baciato
Commesse di supermercato
Scommesse finite male
Degenti di un ospedale.
Le mie labbra si sono aperte
Per labbra altrettanto esperte
E per chi non sapeva dire
I congiuntivi senza svenire.
I miei denti sono agonisti
Maledizione per i dentisti
Accattivanti per il sorriso
Di donne altere, con un bel viso.
La lingua ha fatto le sue conquiste
Con delle frasi mai troppo viste
Senza ripetersi mai, se non quando
Ha dato ordini senza comando.
Il collo ha fatto scorribande
Di donne altere, senza mutande
E ha detto sì, e anche spesso
A facce spesse, di cartongesso.
Le spalle hanno portato pesi
Dolori assurdi, di amori intesi
Come antipasti di altri amori
Che ho visto splendere come colori.
Il petto è forte, sostiene tutto
è forza buona, senza costrutto
perché si spende senza richieste
per donne altere, donne da feste.
La pancia è otre da osteria
Benedizione per l’allegria.
Crescendo è stata coltivazione
Di sonni dolci, da panettone.
Il sesso è un sasso, cuore di panna
Per donne altere, è stata manna.
Per altre è stato solo un pretesto
Fuoco di notte, da spegnere presto.
Le gambe sono due querce in fiamme
Corrono poco, avanzano a spanne
Incedono lente come serpenti
A sangue freddo, cuori contenti.
I piedi sono pezzetti di re
Che sanno correre solo da te.
Da te che cerchi in altre persone
Le mie certezze, le cose buone.
E io lo so, me l’hai insegnato
Sono un progetto per il passato.
L’uomo perfetto, che tu amerai
Da ora, per sempre. Vissuto mai.