mercoledì 29 dicembre 2010

Scusa se ti chiamo Vintage




Lei aveva scarpe da vecchia ed era vestita a caso, ma con tutta la premeditazione possibile. I suoi colori ne facevano un vessillo da contrada del palio di Siena, che Aceto sarebbe morto mille volte calpestato da tutti i cavalli del mondo per poter sfilare anche solo un guanto da quella manina deliziosa. Non cercava l’amore, la ragazza. Ma era costruita per attirarlo a sé, argano senza peso, capace di sollevare la casa di un gigante, con tutta la famiglia gigantesca seduta a tavola per il cenone di capodanno: nel menù, fagioli enormi, che altro? Ma la ragazza non aveva nessuna difesa, contro un sorriso di compiacimento. Peccato che lui non riuscisse nemmeno a sorriderle. Pigiati sulla metropolitana delle otto, con tracce di cuscino ancora sulla faccia, i due erano capitati più vicini di molti amanti, più a contatto di ballerini di tiburon, più intimi di amici di penna ai tempi del computer. Il ragazzo cercò nella memoria un’epifania più forte, un desiderio più grande e risalì con facilità fino al suo letto amniotico, fino a un sogno prenatale, fino alla caverna di Platone e ancora più indietro. Niente. Soltanto una nebbia indistinta, sollevatasi intorno al volto che un giorno avrebbe dovuto amare. Il volto di lei, sicuro. La guardò con insistenza, non poteva fare altrimenti. La ragazza vestita a caso, con miracoloso sincronismo, gli parlò. La parolina si fece giostra, la voce era il gettone, le orecchie di lui cavalluccio e macchinina.
- Scendi?
Un momento. Qui ci vuole prosa ossianica, dannunziana facilità di verso, leopardiana malinconia amorosa, ungarettiana sintesi del pensiero forte.
Poi, con la preparazione di uno studente di Lettere Moderne, fuori corso convinto, lui optò per John Keats e disse:
- L’amore è la mia religione. E potrei morire per esso.
A lei il sorriso nacque e morì in volo, come rondine che ha troppo volato. Lui si scusò e disse:
- Scendo, se scendi tu. Scendo, dovunque scendi tu. Scendo.
La fermata era Subaugusta. Non serviva a nessuno dei due. Perché l’amore è spesso un compromesso tra il sogno più ardito e la realtà più mediocre. E non è mai vantaggioso, a meno che tu non abbia studiato anche Montale:
- Essere sempre infelici, ma non troppo, è condizione sine qua non di piccole e intermittenti felicità.
Sì. E Subaugusta può essere un posto meraviglioso, se devi riconoscerti meglio. La nebbia volò via quando un coatto del posto accese una Marlboro dura. Le scarpe di lei, in un momento, divennero vintage. E lui, da studente fuori corso, si battezzò scrittore. Entrambi, da quel momento, abbracciarono con ostinato ottimismo un futuro migliore.

sabato 25 dicembre 2010

Il grande amore di Carlito Brigante



Verranno tempi duri.
Tempi da coperta di lana, che sotto ti lasci il pigiama anche quando ti vesti per uscire. Verranno inverni da era glaciale, con Sid che è un gran personaggio, ma, se sei un bradipo, hai davvero poche possibilità di portare a casa a pellaccia, sia che ti doppi Claudio Bisio o quella lenza di John Leguizamo.
Con la voce di Leguizamo, forse, il bradipo Sid ha più possibilità, perché mi viene in mente la scena in cui Benny Bianco uccide Carlito Brigante. E Carlito Brigante, lui sì, era una pellaccia.
Dicevamo dei tempi duri.
Tempi senza di lei.
La perdo e la ritrovo ogni momento, le dimostro amore e mi allontano, le offro il mondo e poi solo una mano da stringere di notte. Cerca qualcuno che non sono io. Lo troverà. Perché lo merita, perché è una delizia da pasticceria artigianale.
E io sono un goloso non autorizzato all’acquolina in bocca. Lo troverà.
E io sto preparando il cuore alla botta secca, al rumore di un cristallo che cade sul pavimento, alla gelosia, allo stordimento.
Sono ingombrante come un pacco incartato male, difficile da portare, anche se dentro – e lei lo sa bene – custodisco chincaglierie interessanti e autentiche gemme preziose, diamanti grezzi e pezzi di vetro per incantare donne indigene, specchietti e lucine, collane di denti di squalo e un biglietto per il cinema d’essai, che fanno quel film con quell’attore.
L’inverno arriva quando indossi ancora la maglietta a mezze maniche e i pantaloni leggeri. Ti avvisa, ma tu non vuoi vedere i segni. Fa buio presto, piove forte, comincia il campionato, le sale da the sono piene di coppiette, respiri ed esce un fiato denso e visibile come nebbia in val padana.
Le scrivo lettere d’amore, per fermare l’amore.
Le dedico qualunque istante, per creare nuovi istanti da dedicarle.
Sono Penelope, perché la mia attesa non è senza speranza e faccio e disfo senza averne mai abbastanza. Ma lei tenderà il suo arco per altri uomini e farà centro nei loro cuori inermi senza fatica alcuna. Ed è giusto così.
Non ho paura, mi ripeto. Sono Carlito Brigante, il mondo è mio. La pallottola vagante l’ho messa in conto, il cedimento del cuore fa parte del gioco. I punti fermi del mio mondo sono collegati all’ogiva del suo sorriso e le sue parole sono la spoletta per innescare l’esplosione finale.
Ti amo, mi dice.
Me lo godo a metà. Una metà devastante, che non conosce eguali e che è molto più di qualunque intero. Ma col resto dell’amore, con la parte consapevole della precarietà, tesso una tela leggera e una coperta pesante. Poi accarezzo il cane Argo, soffio nel corno dell’Orlando Furioso, alzo la lancia di don Chisciotte e bevo il vino degli dei. Ti amo finché ci sono. Ti amo anche quando non ci sei.

lunedì 20 dicembre 2010

La mia forza viene da lontano



Io so come ci si sente. Conosco la strada della forza e la forza della strada. Ho visto tanti andare via, qualcuno è rimasto sulla soglia, qualcun altro ha proprio salutato e punto. Mio padre ha deciso che il suo cuore era troppo grande per quei tempi sbagliati. A undici anni, non la presi bene. Credevo volesse punirmi perché avevo detto parolacce e bugie, credevo ce l'avesse con me per quella volta che ho ammazzato i pulcini che mia zia teneva nella vasca da bagno. Mia madre è rimasta, per fortuna. Non camminava, però. Non muoveva le mani. Non muoveva niente. E io credevo che fosse colpa mia, perché si è ammalata dopo il parto. E invece era un dono d'amore: la sua immobilità in cambio delle mie gambe robuste, la sua malattia in cambio di una vita speciale: la mia. Sclerosi multipla, la chiamano. Per i dottori è un campo minato di teorie, una sfida persino avvincente. Per i parenti è qualcosa che fa male, di giorno perché non vivi tu, di notte perché vorresti che vivessero loro, prendendo in prestito il tuo corpo dormiente, ma mai veramente riposato. L'ho vista diventare una pianta, ma era la mia pianta meravigliosa, un'orchidea di sentimenti purissimi, una quercia robusta e profumata, legno e foglie per scaldarmi, linfa e frutti per nutrirmi. Lo so, una quercia non dà frutti, ma avete capito il senso. Tumore al seno, lo chiamano. Perché la sclerosi non la piegava abbastanza. E i dottori si sono affannati a dirmi che dovevo essere forte. Io so come ci si sente, quando qualcuno in camice bianco ti dice le cose che sai da sempre. Ci siamo nutriti l'uno dell'altra, simbiotici come un parassita e il corpo ospite, scambiandoci di ruolo ogni momento. Io seduto, lei in perenne movimento. Scriveva poesie sulla lavagna della mente e le faceva copiare su carta a una sua amica, perché si vergognava del figlio parolaio, che magari avrei avuto da dire sulla metrica o sbuffato per i contenuti. Erano belle poesie. D'amore, perfino. Quando sono andato a trovarla, l'ultima volta, ho sentito un rumore dal corridoio della clinica. Proveniva dalla sua stanza. Un infermiere, con delicata esperienza e dovuta indifferenza, tirava su la chiusura lampo di un sacco nero. Dentro al sacco, non c'era un soldato, ma qualcuno di ben più eroico: c'era lei. Il giorno prima, aveva detto che bastava, che andava bene così, che io ero a posto, grande e grosso e realizzato, con accanto una donna che si sarebbe presa cura di me. Era vero. Ma non ero pronto. Non si è mai pronti, per certe cose. Ho urlato senza piangere. Le lacrime sono scese verso l'interno. Mi hanno protetto il cuore con un guanto di ghiaccio. Ed era giusto così. Poi ho provato a vivere da protagonista, lasciando il ricordo di lei a solleticarmi il cuore con unghie da criceto gentile. Ricordo le sue gambe gonfie, la ritenzione idrica, le pasticche inutili. Ricordo i debiti con le banche, con qualche amico affettuoso. Ricordo le volte che non sono potuto uscire la sera. Ricordo le ragazze che sono scappate, dopo averla conosciuta. Peggio per loro, lo penso davvero. Si sono perse la possibilità di crescere accanto a una grande figura del Novecento, che Freud e Picasso erano soltanto un impiccione fetente e un disegnatore scadente. Io vengo da lì. Mi sono abbeverato a quella fonte, ne ho ricavato forza da vendere. E l'ho venduta, infatti. L'ho messa nelle mie storie, travestendola col nome generico di fantasia. Ma il più delle volte, quella forza, l'ho regalata. E continuo a farlo. In cambio, spesso, ho avuto la sensazione di non essere capito e creduto. Tu non sei vero, tu non esisti, tu mi entri nella testa, tu mi stordisci il cuore. Tutto vero, per carità. Sono una bomba di umanità, lanciata contro persone inermi alla confidenza, diffidenti verso il mondo. Eppure, dopo che sono passato a un metro da loro, qualcuno ha capito. E mi ha sorriso. E mi ha detto grazie. E mi è bastato. So come ci si sente a essere il bambino speciale, il figlio della signora sulla sedia a rotelle, il ragazzino bravo a scuola senza alcuno sforzo, l'amico che capisce, l'amante che esplora un corpo ogni volta come se fosse il primo e l'ultimo. La sensibilità non è mai gratis: la si paga, la si pagherà. Ma ne vale la pena, credetemi. Sono una radio sempre accesa, un brusio di fondo di un canale sintonizzato male, ma che trasmette la musica degli angeli. Sono un telepate emozionale ed emozionante, un gatto che sa già quando verranno i tempi duri ma che non se ne va. Non ho bisogno di nessuno, per splendere, perché ho il mio serbatoio interno che va a benzina antica, quella che mia madre stipava ogni giorno, quasi fosse la mia donna, o una mia amica. Ma ho bisogno di te. Che sei nel mio mondo da sempre, che non ti stavo cercando perché ti avevo già trovata. Io so come ci si sente, ad avere paura di perdere qualcuno. Ma so pure cosa vuol dire avere un bonus d'amore da spendere al mercato della vita. Tu sei il segreto della mia forza dolce e praticamente infinita...

sabato 18 dicembre 2010

L'origine della vita interiore




Joyce aveva una casetta carina, comprata coi soldi del padre. Ma lui si alzava presto, la mattina, per scrivere pagine e pagine senza alcuna punteggiatura. Il genitore, dalla tomba, scuoteva la testa: non era quello, che a James avevano insegnato a scuola, ma in fondo era un bravo bambino. E un innovatore può anche passare per un idiota, in nome della perfezione del monologo interiore.
Gozzano da piccolo aveva una gallina di nome Cassiopea. Suo nonno lo guardava preoccupato: non era così che si costruiva il fisico e lo spirito di un medico soldato. Ma era un ragazzino minuto e gentile, capace di tacere per ore anche quando aveva molte cose da dire.
Kerouac aveva un nome per esteso che pretendeva da lui un futuro da moschettiere, da ginecologo o – almeno – da notaio. E cominciò a uscire troppo, la sera, e a tornare a casa col sorriso di chi ha fatto marachelle confondendole con la vita normale. Ma ascoltava le storie dell’Ombra alla radio, insieme a sua madre, rapito da quelle voci baritonali dall’intonazione micidiale.
A sette anni, Ungaretti era bravo a impastare il pane con le sue mani piccoline. Fu al forno di famiglia che imparò l’economia della frase: poca farina, tanta acqua e un po’ di lavoro, una croce sulla pagnotta calda in attesa della lievitazione, occhi chiusi a fessura e feroce determinazione.
Siamo nati per caso, ma siamo fabbri di destini, architetti di traiettorie di vita, mondine di emozioni, minatori di stupore, contadini di noi stessi, sempre chini sul terreno incolto di un amore mai completamente vissuto, mai completamente risolto.

martedì 14 dicembre 2010

Songwriter



La minore, mi settima e ci ammazzi anche un cavallo, con la tristezza di certe canzoni. Sono uova di lompo andate a male, da finirci in ospedale senza passare per il Via. Perché il Monopo.ly era più bello una volta, con le casette e le pedine di legno e il tabellone e i soldi più carini. Il compositore ardente sa che De Gregori è bravo, ma lui lo trova sopravvalutato. Non può dirlo alle riunioni di partito, ma può dirlo allo spartito, sporcandolo di note oblique, sudamericane come certi culi di marmo bianco. Guccini è triste come una madonna che piange sangue. De Andrè è un poeta, ma il rapimento l’ha ucciso prima di morire. Rino Gaetano non si può sentire. Paolo Conte è blasè, che è un termine francese per indicare la puzza sotto il naso. Lui sì che avrebbe tanto da dire. Ha scritto quella canzone, quella volta che lei l’aveva lasciato per un tipo del nord. Anche lei era del nord, ma col cuore sudista. La canzone parlava di viaggi e stanzette, abitate insieme, di canti di serene (gli occhi di lei), di amplessi frenati, di bocche fragranti e avanti e avanti. La sentì un produttore di Catanzaro, che fece sì con la testa e no col portafogli. Allora lui la iscrisse a un festival, che non vinse, ma fece un passaggio in radio che non poté ascoltare, perché l’apparecchio era sintonizzato male.
Il compositore ardente prende la chitarra folk e prova un fingerpicking che paga un tributo al country. Ne viene fuori un lamento di corde straziate, qualcosa che paga un tributo alle grida che seguono la tortura del sonno o della goccia cinese.
Lui sorride e pensa che fare i conti col proprio talento può mettere un uomo di fronte a uno specchio sormontato da un neon e tirare fuori dalle rughe di espressione una zampa di gallina spietata. Il tempo passa e la canzone migliore non è ancora stata cantata.

giovedì 25 novembre 2010

Letti di spine




Averne, di delusioni d’amore.
Pensa il poeta contadino, quello che ammazza le serate a colpi di tressette, che non si fanno i segni e tua sorella è una zoccola mai come tua madre però.
Sono piene di spunti, le delusioni d’amore, roride di occasioni di canto. Uno normale ci piange, sul rifiuto di lei, sulla manifesta ingiustizia di come vanno le cose. Il poeta contadino, invece, ha rughe profonde di concentrazione, sopracciglia cespugliose inclinate come grondaie esauste e mani che con un dito ci pesta almeno due tasti di fisarmonica. Prende un mozzicone di toscano, un mozzicone di pane, un mozzicone di matita e scrive:

Odorosa di stelle
la notte nordista.
Apristi le gambe
Ci persi la vista.
Girata sei vacca,
In piedi cavalla
Sdraiata giumenta
Su letto di stalla.
Ti canto distratto
Da altre sorelle
Migliori di fianchi
E di crude mammelle.

Muoio d’amore.
Pensa lo scrittore metropolitano. Segue ogni giorno quella ragazza, armato di moleskine e sorrisi ferini. Lei si chiama Carmela, viene da Messina, indossa gonne strette per esaltare curve pericolose e spera non si noti la sua scarsa abitudine ai tacchi dodici, messi sotto al metro e cinquantasei di donnina per arrivare al minimo sindacale che Milano richiede in zona stazione centrale.
Lui prende una penna mozzicata, apre il suo moleskine hemingwayano e scrive, con cognizione di causa.

“La ragazza mi rifiuta, sorpresa dal mio ardire. Per lei sono una banconota falsa, un posteggiatore abusivo, qualcosa che esiste per convenzione, un tentativo di frode. La costanza va premiata, però. È la regola. Ce la insegnano a scuola, la ripetono a ogni occasione: impegnati, ragazzino cresci ragazzo suda che sei uomo e non rompere i coglioni la pensione non ci campi tumori e radiazioni. Si è voltata, credo mi abbia visto, persino guardato. Ho i capelli interrotti da squarci di alopecia, come campi arati male o ex giardini profanati da mine anti-uomo. Non sono più sicuro del mio odore personale, in bocca ho un ristagno da crescerci i girini, le mani garantiscono sopravvivenza ai pesci, le scarpe non le tolgo di sicuro, nemmeno per fare l’amore con la mia piccola dea. Perché è piccola, si vede. Una piccola pattinatrice della stazione centrale di Milano, con tacchi da domatrice di formiche. Mi attrae la sua decadenza, in fondo. La forza di gravità si è accanita contro le sue forme, rendendola più budino che donna. Ma quando sorride io vedo scritto nel cielo il prefisso di dio.”

giovedì 7 ottobre 2010

file temporanei



Il cuore sanguina gratis.
Non chiede pietà, cerca adrenalina, sale scale mobili al contrario, surfa dentro il cono dell’onda, incurante del pericolo.
Questo pensa Gino de Paolis, detto Palletta, poeta metropolitano di 28 anni.
Il cuore è una merda.
È una gabbia aperta, vuota da un secondo, che ancora puoi vedere qualche piuma svolazzare e l’acqua tremare nella sua vaschetta.
Questo pensa Isabella Cartoni, bellezza in controtendenza, coloratissima in un’epoca in cui il nero è il vestito del ballo e della festa.
Si scrivono interminabili lettere d’amore. Perché è giusto così. Una lettera d’amore non è mai finita veramente, che hai sempre qualcosa da aggiungere, soprattutto se sei un poeta sovrappeso o una delizia di ragazza senza nessuno da amare. Si danno appuntamento che già si piacciono, per cercare la conferma della pelle. Lui ha messo un dopobarba al mentolo che lo senti arrivare prima che esca di casa. Lei ha messo un sorriso fresco, di quelli che si ferma la rotazione terrestre e gli astrofisici chiedono fondi alla ricerca per studiare il fenomeno di un mondo pieno d’amore incandescente: rifrazione spontanea sensuale, pare si chiami. L’imbarazzo dura un momento, poi lui dice:
- Sei più bella, da viva.
Il sorriso si fa risata, rimbalzano pezzi di felicità oltre i confini della periferia di Roma, uccisi in volo da uno shrapnel ricolmo di bellezza e di cose buone.
Passeggiano e vorrebbero fermarsi, parlano e vorrebbero tacere, si sfiorano apposta senza farlo apposta, danzano: pavone discreto lui, farfalla opalescente lei. Per la musica: il Palletta pensa a Michael Jackson, che tanto non è morto, con un pezzo a scelta tra Man in the mirror e Human nature. Lei arpeggia mentalmente Horizon dei Genesis, che odia Michael Jackson, a meno che non piaccia a lui.
Lo scrittore di romanzi rosa si alzò dal tavolino e chiuse word, non salvando le modifiche.
Perché campare va bene, ma a spese dell’amore degli altri proprio no.
Anche se gli altri non esistono, quell’amore da qualche parte vive e splende.
Banalizzare è un lavoro da infami, oltre che un mestiere infame.
Lo scrittore che scriveva di uno scrittore di romanzi rosa sorrise cattivo.
Stampò il file, lo rilesse e poi invitò a cena quella ragazza conosciuta a quella festa dopo la presentazione del suo ultimo libro. Aveva le sue possibilità di farsela, ma nessuna possibilità di piacerle davvero. Tutto sommato, un pareggio mica male, buono per continuare ad aspirare alla champions league dei pezzi di merda.

martedì 14 settembre 2010

Core ingrato (un'altra storia di Tony Plumbeo)




Roma gli ha rubato l'anima e ci ha fatto un arbre magique al mango. Tony Plumbeo spande intorno a sé l'afrore del capo-branco, artista della capocciata, traghettatore di capitali altrui. I suoi superpoteri brillano sotto pelle come lucciole indecenti. In un secondo, può rispondere a un'intervista, fare l'amore al telefono e sollevare un tram. Ma adesso qualcuno si è preso Sciaron. Lo sfintere di Roma molla il colpo.
Datemi sangue per tracciare la strada che mi separa da Sciaron. Sarò un treno di ferro. Sarò il sasso per la forbice, la forbice per la carta e tutto il resto. A questo pensa Tony Plumbeo, con la sua mente da guerriero inurbano. Scrocchia le dita con rumore osceno e ripensa a quando Sciaron gli ha detto la frase che lo ha reso schiavo d'amore: Levete dar cazzo, moro. So' nervosa. Lui la guardò. E fu subito sera...
La cerca a casa di Leone Solleone, artista della tintarella a marzo. - Ci sta? - Chi? Non si risponde a una domanda di Tony con un'altra domanda. Capocciata gentile, rumore: BAM! - Sciaron.
- Non lo so, osa Leone. La sua abbronzatura vira sull'epatite.
- Se mi dai un solo indizio magari ti lascio campare. E ti offro un Campari.
- Prova da Pisolo, sospira Leone. Pisolo Mandragora. Ovvio. Ascolta, si fa subito faida.
Il sangue di Tony Plumbeo è materiale da cancelleria, pezzi di chiodi, amaro del finanziere e losanghe a quadretti. Con una mano divelle un lampione, con l'altra ne fa un'armonica a bocca. Tony chiede consiglio al Re del Flipper, che chiosa così:
- Accendi gli special del cuore. Perdona. Ama di più. Tony lo guarda come fosse un fantino dopato, gli ficca in bocca l'armonica e suona Pupobionno con i suoi denti morti.
Il primo bacio contro Sciaron fu Ferrovie Laziali contro Muraglia Cinese. Seguirono amplessi negletti, rapporti schietti, scambi d'umore, braccia nere di tatuaggi. Lui le aprì un fronte nel cuore, nonché un salone di massaggi. Lei gli aprì orizzonti culturali: Herman Hesse, Herman Melville, Dio e Bombolo. Ora Sciaron è nella tana di Pisolo Mandragora, che trae il nome da una pianta afrodisiaca. E infatti so' cazzi...
La casa di Mandragora è terrazzatissima, entrata indipendente e filo spinato Davanti al cancello, i fratelli Mortaccino ostentano 300 kg di muscoli e un mitra che sparisce tra le le loro mani come coriandoli a carnevale. Vedono arrivare Tony e mettono su facce da Django. La prima capocciata fa un cadavere, la seconda trasforma il Mortaccino superstite in un maestro di tango. Besame mucho, que tengo miedo. Come tutti.
Poi viene il momento di affrontare il Kunge. Dieci anni di karate: ripetente. Colpisce Tony Plumbeo di taglio, ma non lo ammazza. Tony sorride come chi ha fatto tombola e spara un ambo di nocche di cemento in faccia alla cintura gialla di tecniche orientali. Poi si fa fare un massaggio e prosegue verso il cuore della tana delle tigri. Adesso c'è una porta che svelerà una donna. Oppure 'inferno, che è la stessa cosa.
Piscina coperta, cafonaggine tanto al chilo, televisore al plasmon: Pisolo Mandragora si tratta bene. Tony Plumbeo si muove per la casa del rivale, circospetto come un Mambo, ché il Mamba è una variante da checche. Un sibilo. Parte un dardo avvelenato da una trappola nascosta, ma la realtà si muove troppo lenta per chi ha una vendetta da prendere e una shampista nel cuore. Tony afferra il dardo e se lo ingoia. Sano.
Altra trappola, difficoltà undici decimi. Seduta su un divano di pelle, con le gambe accavallate pelle su pelle, c'è Apelle, figlia di Satollo, che fece una palla di coca e di pollo. E' la prostituta definitiva, la concubina estrema, quella che apre la bocca solo per un lingua a lingua. Tony non è insensibile all'articolo,.Lei dice, Solo? Lui pensa, Molto. Poi la incassa nel divano come mortadella nella pizza calda.
Tre corridoi, diciotto stanze e due bagni placcati oro più tardi, Tony Plumbeo arriva davanti a un Caravaggio. E lì c'è l'estasi d'amore, il riconoscimento tra coatti disposti a uccidere per una donna e un horror vacui che stende l'eroe per un secondo, facendo di lui un uomo. Poi Michelangelo Merisi lo guarda attraverso la polvere dei secoli e gli sussurra, tra una natura morta e un Cristo deposto: Daje Tonino, Daje.
Una sciampista suda bigodini, forcine e rivoli di shampoo al mango. Tony sente l'urlo di Sciaron, ma è solo la suoneria del suo cellulare. E' Ottone Erminio, un trans chiamato desiderio che Tony ha salvato da morte certa per mano di un cliente basito da attributi fuori scala. Ottone sussurra un nome, Claudio Panatta, che in gergo vuol dire: non ti fidare di quelli senza talento. Tony adesso ha un nemico: Occhio Spento.
Occhio Spento è il fratello stupido di Pisolo Mandragora. Mezzo cieco dalla nascita, idiota da molto prima, si nutre di avanzi alla tavola dei grandi, buffone osceno di un medioevo marginale. Tony valuta il vetro temperato di una porta e lo abbatte con una testata epocale. Guarda e stupisce. E' una pistola, quella. E lui è dalla parte sbagliata della canna. E' il cinema, bellezza. Si muore per un applauso chiamato Sciaron.
Nemmeno Occhio Spento può mancare un uomo da quella distanza. - Abbassa il pezzo.
- Nun abbasso gnente, Tony!
- Allora sparami in faccia e poi al cuore e poi in testa e poi strappami le mani.
- Sei er solito coatto! Quella voce da fuoco fatuo appartiene a Sciaron, come pure il braccio con cui circonda le spalle di Occhio Spento. E anche la lingua guizzante da orologio a cucù. Roma è un posto dimmerda quando sei giù.
Sciaron elenca gratis:
- Sei storia vecchia, Tony! Un cartone bagnato, una pantofola sinistra, un acquario vuoto... Occhio Spento annuisce come un batterista. Plumbeo chiede solo: perché?
-Ho ammazzato mi' fratello pe' 'sta zoccola, e nun me pento. Ci amiamo, Tony. Senza rancore. Il corpo di Sciaron aderisce a quello di Occhio Spento come un cofano a un motore.
- Con tutto il rancore possibile, invece. Daje, Tony...
Si muove, Tony Plumbeo. E l'aria intorno frigge come musica stipata in un'audiocassetta. Occhio Spento spara due colpi che vanno a segno, ma la rabbia di Tony trasforma pallottole in tappi di sughero, sangue che scorre in vino versato, dolore in energia cinetica. La capocciata alla bocca dello stomaco è roba per intenditori. Occhio Spento cade come pioggia gentile, senza rumore. Sciaron carica un calcio-serpente, di quelli velenosi soprattutto se accompagnati dalla furia anti-estetica di una zeppa trampolata tacco 18. Il naso di Tony Plumbeo cede alla lusinga del colpo, le cartilagini si arrendono subito, le ossa diventano all'istante cristalli di sale. Ma lui sorride come chi crede in un futuro migliore e canta sottovoce che pure questo è amore. Prende Sciaron per la vita, ballerina di un tango mortale. Poi le prende la vita, che tanto è uguale: il vero amore finisce solo con la morte, per poi protendersi verso l'infinito e oltre. Tony Plumbeo esce nella notte romana e vorrebbe tanto respirare, se non fosse che al posto del naso ha una tartara di manzo. Respirerà più tardi, perché adesso ha da fare. Compone una lista, a memoria: Sciaron addio. Comprare cerotti, latte, pane e due etti di lonza. Ah... e mai più innamorarsi di una stronza..

mercoledì 21 luglio 2010

Sogni di Grande cinema



La ragazza venne per prima, preoccupata da un ritardo.
Lui venne urlando, perché in fondo era un coatto inossidabile, garantito per l’eternità. L’eternit sbirciò l’amplesso, il capannone industriale s’industriò per sembrare l’Hilton, Paris Hilton benedisse l’unione in virtù di una telecamera nascosta, messa lì per caso dal coatto regista e attore, una specie di Chaplin nel Grande dittatore.
- Non è stato solo sesso, disse lei.
- No. Abbiamo anche scopato, rispose lui.
- Adesso cosa penserai di me? Ci conosciamo così poco.
- Penso che hai un bel corpo per la tua età.
- Ho solo trentadue anni!
- Scusa.
- Li porto male, lo so. È una questione di pelle. Non ci posso fare niente.
È una questione di palle, voleva dire lui. Sono brave a fracassartele in cambio di un ascolto distratto.
Ma seppe tacere.
Quando rivide il filmato pensò che lei a trentadue anni ancora reggeva botta. Lui ne aveva quasi cinquanta. Vederla rivestire gli fece un effetto strano, da paradiso perduto male, all’ultimo minuto, per una svista arbitrale.

giovedì 29 aprile 2010

Canto di uno scrittore fuori sede



Il posacenere è pesante per definizione. Lo è mia madre, per scelta di vita. Pesante è l’armatura del Dottor Destino, con le borchie da metallaro e le cuffie dell’Ipod incluse nel prezzo, rottamazione a carico dello stato di Latveria. È pesante e tagliente il respiro durante l’amore, soprattutto quando entra nei polmoni, pezzi di lametta odorosi di Aqua Velva. Pesano i macigni, le aspettative, le donne incinte, le donne sconfitte dalle buste della spesa.
Leggero è il cuore dei ragazzi che escono la sera. Pesa poco la piuma, niente lo sguardo che cerca di vaticinare le traiettorie del leggerissimo Super Tele. Leggera è la schiena dei saltatori, perché Fosbury rese loro un servizio notevole. Leggero è lo stracchino di nonno nanni, ma soltanto per gli occhi, perché poi diventa calce viva se non stai attento al pane che ci mangi mentre bevi per dimenticare. Pesante è il ricordo di quella sera, che avevo lavato la macchina e pure le ascelle, ma lei era un gradino sopra alla mia capacità di persuasione.
Leggero è quel film con quell’attore. Pesante la sconfitta, leggero il dolore di un distacco cercato. Certi tramonti sono fatti della stessa sostanza dei cuori: sanguinanti e rumorosi.
Questo pensa Nicola, detto Nick, mentre incombe con foga da atleta tra le gambe di una ragazza conosciuta minuti addietro. Lui è leggero soltanto se non lo conosci, se lo guardi e ti innamori di un’ostinazione tutta calabrese, di una cameretta da fuori sede e di una macchina finta sportiva.
Nick vuole fare lo scrittore importante.
È un mestiere pieno di scuse, una strada lunga e tortuosa, come cantavano i Beatles in tempi non sospetti. Ma i tempi sono tutti sospetti, perché non ci aspettano mai. Hanno il sorriso di Valentino Rossi contro Gibernau. Talento contro applicazione.
Nick si applica e lei viene.
Parole parole parole al posto del sangue nelle vene.

sabato 13 febbraio 2010

Il ragazzo di città



La campagna intorno è un pezzo di presepe e il ragazzo di città cammina col piglio dell’iconoclasta. Scalcia le margherite, calpesta l’erba, minaccia le lucertole di morte imminente e dolorosa e sputa alle api come farebbe su corpi di nemici morti, stremati da una faida secolare. Per il resto, è pacificato. Jeans chiari, camperos, camicia a quadri aperta e sotto la maglietta definitiva: quella di Space Invaders con ancora quattro vite tutte da usare e l’astronave piazzata in alto a sinistra per chi guarda. A proposito dell’astronave: è appena spuntata o sta scomparendo fuori campo? All’orizzonte si profilano montagne da spaghetti-western, desolate in apparenza e soltanto se stringi l’inquadratura per nascondere paesi pieni di sagre e privi di saghe. Il ragazzo di città arriva fino a uno spiazzo erboso accogliente, leggermente in discesa. Si toglie la camicia e ne fa una tovaglia da pic-nic, su cui deposita la pietanza di se stesso. Aspetta. Fuma. Si pente. Nessuno dovrebbe fumare a milleseicento metri e non per l’impatto devastante che avviene a polmoni aperti. È la natura intorno, cazzo. È il pezzo di presepe, il rispetto dovuto ai santi o a chi per loro, ai progettisti di panorami, a vostro signore, a quello che ci ha messo le mani per rendere l’Abruzzo un posto perfetto per una scampagnata o per innamorarsi di qualcuno che non ti ama. Il ragazzo di città butta la sigaretta, non senza appuntarsi un post-it mentale: raccoglierla prima di andare via, l’Abruzzo pulito dipende anche da te. L’aria si fa fresca, il pranzo con i parenti è passato attraverso le varie fasi della digestione e adesso rappresenta un problema di smaltimento che in Parlamento ne parlerebbero per anni. Il ragazzo di città è autorizzato dall’urgenza. Tra pochi giorni tornerà a Roma e quell’evacuazione fuori dagli schemi diventerà un aneddoto per le serate morte: Una volta l’ho fatta dietro a un cespuglio e mi sono pulito con le foglie. Succede che la fa e che in contemporanea la terra trema come un tagadà. Il rapporto causa-effetto è un po’ fuori scala: sono stati potenti, i gas intestinali, ma non al punto da accartocciare in meno di venti secondi il paese di fronte ai suoi occhi. E lui rimane così, a bocca aperta. Da lontano è un airone spettinato dal vento. Da vicino è un ragazzo di città, che ha la fortuna di avere quattro vite di scorta. Le userà a dovere, anche se l’astronave da trecento punti è già passata da un pezzo.

martedì 2 febbraio 2010

La scelta



Da lontano, Sara è ancora una bella donna.
Questo pensa Nicola, appostato davanti al fioraio Johnny.
Sara, sei stata, sarai. Pensa il fioraio Johnny, che ha velleità da poeta.
Nicola ha le spalle abbastanza grandi da contenere le mie paure, pensa Sara.
Ma con Johnny sarebbero petali ogni giorno. E di ogni colore.
Scattano tre sorrisi dal significato preciso, si prendono decisioni, si accettano scommesse. La Snai quota alla pari la coppia Sara e Johnny, mentre Nicola ha la quota dell’outsider, della sorpresa di giornata.
Il bambino Tommaso ha un nome alla moda e vuole dei fiori per il compleanno di sua nonna, stringe cinque euro come una bandiera pirata, stropicciata ma mai doma. Johnny sa che seguire questo cliente gli farebbe perdere posizioni nel tour a tappe dell’amore. Il bambino Tommaso alza il vessillo, chiede consiglio. Nicola capisce l’attimo, la Snai si mangia le mani, cavallari esperti esultano in vista del traguardo. Ma Nicola è un gentiluomo, saluta Sara con la mano e cerca una strada sicura da percorrere da solo, con un groppo in gola e il sorriso del giusto stampato sulle labbra. Johnny ha fatto felice un bambino e una nonna, ha guardato da vicino una ex-bella donna e urla quel nome con quanto fiato ha in gola:
- Nicola! Stasera ci vieni al biliardo?
Che un amico è la scelta migliore, anche se nell’altra busta ci mettono un miliardo.

lunedì 25 gennaio 2010

Padri, figli, ragazze e sorrisi



All’improvviso, la pioggia.
Gocce grosse come uova, di quelle che Roma diventa l’Amazzonia e il tuo ombrello un oggetto inadeguato, un fermacarte rimediato all’ultimo momento per un duello all’arma bianca dietro al muro di un convento.
A Sandra piace l’odore dell’asfalto mentre piove, un misto di polvere e sesso degli angeli, perché contiene quelle qualità volatili che le conosci bene anche se non le hai viste mai.
Oggi Sandra ha l’esame per la patente B: teoria. Valvole a farfalla hanno affollato la sua notte, sensi di marcia sono marciti nella memoria, ma adesso è caricata a molla perché ha ventidue anni, la pelle tesa, splendono gli occhi, rimbalzano i seni. È la donna di cui si parlerà, la ragazza in fiore, la musa dei poeti, la ribelle sana, la chitarrista battistiana. Sandra vive un momento che è un ponte sospeso tra se stessa e il futuro, una promessa in vacanza dal fallimento possibile, un pezzo di carne odorosa e immarcescibile. Quando entra nella stanza della Motorizzazione, la sua gonna fa la ruota e qualcosa si ferma, si sospende un respiro, e la mente di Damiano va in modalità-pausa di riproduzione della realtà.
Il test comincia, i due sono seduti vicini, lei sfarfalla e svolazza sul foglio, lui la guarda mordicchiare il lapis e non risponde alle domande perché ha di meglio a cui pensare. È un ragazzo di vent’anni, campione di Zippo, rumoroso allo stadio, silenzioso a letto. Sua madre è ancora un’alabarda spaziale, una donna capace di creare e distruggere. Suo padre è andato via senza salutare, infarto nel letto di una donna giovane. E Damiano ci pensa a come doveva essere lo sguardo di suo padre quando guardava le ragazze più belle. Come il suo, sputato. Sorriso allargato, da ruscello autunnale. Sorriso micidiale, che promette un bacio e una chiacchierata leggera, e la leggerezza è un dono degli dei.
Alessandra Martinelli, promossa, senza errori.
Damiano Orlandi, torni tra un mese.
Escono sotto la pioggia, felici tutti e due. Lei ha il permesso di guidare, lui ha ben altro, ha qualcosa di più. Ha la prova certa che la vita è in movimento e non un presepe pieno di pastori, col cielo finto e l’acqua di stagnola.
Damiano prende il coraggio a due mani, tossisce e le dice:
KA-BOOOOOOOM!
All’improvviso, la pioggia ha messo in scena anche il tuono.

sabato 16 gennaio 2010

occhi chiusi




Luigi ha piazzato male la barriera, dev’essere quello.
Il bacio lo coglie di sorpresa.
È una finta di Maradona, di caviglia e sopracciglia, di quelle che ti becchi un tunnel e poi spendi il fallo di frustrazione.
La bocca prende atto dell’invasione e si arrende alla lingua aliena senza condizioni. Lei non gli piace, il bacio sì, a dimostrazione che si può odiare una materia scolastica e poi godere i frutti della fatica dell’istruzione mentre giochi a Trivial con i tuoi cugini di Mestre.
Scrisse Il Decamerone: Walt Disney è il nome che brilla al neon della memoria. Lui sceglie di tacere e continua a frullare, a rimescolar papille, a fare eccentrici giri tra il palato e i denti del giudizio.
Marina, si chiama lei. Conosciuta tre giorni prima in uno stabilimento balneare, abbronzata e rugosa come un copertone, promessa sposa di un marinaio che le ha giurato fedeltà mentre incrociava tutto l’incrociabile, la ragazza si muove con competenza e tenacia. Luigi è un dimonio con gli occhi di bragia.
La vita e la cultura si muovono insieme, cigolano letti e vocabolari, volti di vecchie maestre si sovrappongono a quelli di attrici vogliose.
Ci sarebbero altri sensi adatti alla bisogna, ma non li usi. E baci le ragazze brutte con gli occhi chiusi…