martedì 18 dicembre 2007

Cuori in battere, tempo in levare



Uno sguardo è una pistola, ma più mortale.
Soprattutto se lei è sopra le scale di un bus e ti guarda come per dire:
"Io ti conosco, non mi seguirai".
E infatti non la seguo.
Il mio presente è mai.

lunedì 17 dicembre 2007

Cosa succederà alla ragazza?



Perdere lei è stato come quando hai scoperto che Babbo Natale sono mamma e papà.
All'inizio, ricordi pezzi di strada costruiti insieme, sorridenti genieri nell'Africa di fine Ottocento. Poi uno dei due si gira di spalle, sorride fuori sincro e tutto finisce lì, in un giorno qualunque, senza musica patetica né poetiche dissolvenze. Il ciclista che è in te prova a metterci una tip-e-top, ma le bolle d'aria sono troppe per darti una speranza. Allora cerchi di ricostruirti, ma ti scordi di fare le fondamenta. E piove sempre troppo, se perdi lei. Lucio Battisti è appostato dentro tutte le radio. Era meglio se facevi il soldato, così avresti obbedito lo stesso a ordini senza senso, ma a pagamento. Adesso, invece, l'ordine gratis ti lampeggia nella testa come un neon moribondo: appostati sotto casa di lei, filo di ferro nel cuore e occhi furbi, da spia che l'amava.
Ti addormenti, perché gli appostamenti non sono roba sopportabile nella vita vera. Ti svegli che è notte, con l'alito che ti ricorda una scatola di tonno con fagioli cannellini, cipolle e cetriolini, latte scremato, pane in cassetta. Mancava solo un ingrediente, se ci pensi: lei. Che arriva sottobraccio a qualcuno, in un orario poco adatto agli amici dell'asilo e quella mano nella mano ti costa una bestemmia che non sapevi di conoscere. Parti nella notte con la tua Diane gialla, evidenziatore spietato di qualcosa che non è andato come doveva andare. Gli occhi di lei puntati sulla nuca scottano ma non scaldano. Ti stai sbagliando, chi hai visto non è… non è Francesca. O almeno, non la Francesca che conoscevi tu.

domenica 9 dicembre 2007

Adobe or not adobe?



Vanessa era una bellezza da doppio paginone centrale, non fotoscioppata e rustica al punto giusto. Scrittrice in erba, nel senso che si spaccava di canne, aveva vinto un concorso di bellezza e uno dedicato a racconti di esordienti.
Il suo racconto si intitolava Senza titolo e parlava della difficoltà oggettiva di capire una realtà quando ne fai parte. Le riuscì l'impresa di sconfiggere in finale il pezzo breve di un ragazzo brufoloso, intitolato Doppio paginone centrale.
Il concorso di bellezza lo vinse a mani basse, sconfiggendo Miss Tagliacozzo e Miss Calze in Gamba, in virtù di un sorriso lucente come una pista da bowling dopo la pulizia del parquet.
Vanessa aveva un gatto di nome Oloferne, dallo sguardo biblico e l'appetito laico, cui dedicava tutta se stessa. Per Oloferne erano le carezze, per Oloferne il cibo, per Oloferne le confidenze e le confessioni di struggimenti in corso.
Vanessa disse:
- Oloferne, mi piace un ragazzo. Non è bello, non è alto, e c'è un segreto che mi spacca il cuore.
Meooow!
- Lui è uno scrittore. Di quelli bravi. Di certo, più bravo di me.
Meooow!
- Sì. Inutile girarci intorno. Ma il problema è un altro. Lo scrittore pensa che sono troppo bella e troppo alta per invitarmi a uscire.
Meow.
- Certo che posso farglielo capire. Ma è il problema è un altro.
MEOOOW!
- Scusa, devo togliermi il difetto di dire che il problema è un altro. Ma è la verità. Il fatto è che lui…
Meow?
- Lui è pieno di brufoli, ecco cosa.
Meow.
- Ma il problema è un altro.
ME…
- Scusa. Lui è arrivato secondo al concorso per autori esordienti col racconto Doppio paginone centrale. Credo di aver vinto io solo per una questione di lunghezza. Lunghezza di gambe…
Vanessa vide che Oloferne si era sdraiato sulla schiena e aspettava le carezze, di quelle riservate a lei soltanto. Sorrise e lo accontentò.
Intanto, un ragazzo brufoloso prese il coraggio a due mani e compose un numero che strillò nella notte una suoneria bitonale. Sappiamo bene che è rischio di morte il nascimento. Ma qualcosa comunque era nato, tra gatti parlanti, racconti, brufoli e invidie culturali. Qualcosa a più livelli. E, quindi, fotoscioppabile…

giovedì 6 dicembre 2007

Lessons in love



Camicie colorate vanno incontro all’estate, ma spesso Roma fa la stupida di sera col ponentino travestito da bora. Concerto di quel gruppo in quel centro sociale, birre in bicchieri di plastica, occhi socchiusi e teste che fanno di sì a tempo col proprio tempo interiore. Il sound-check si fa con GIY di Donald Fagen, non ci sono cazzi. Il gruppo precisa che il concerto è dedicato a qualcuno privo di libertà, col corpo chiuso in una gabbia di legno immersa in un acquitrino in un posto del mondo difficile da pronunciare. Ma il cuore di quel qualcuno è in quel centro sociale, ovvio. Parte il primo pezzo, batteria, hammond e chitarra, col cantante che parla di anarchia e villaggi globali. I testi sono sinceri, la voce è un pezzo di spugna nel costato di Joe Cocker, che non è un cane rossiccio ma un tizio di Sheffield con la pancia da bevitore che cercava solo un piccolo aiuto dai suoi amici. Il secondo pezzo è quello radiofonico, che lo puoi ballare e cantare le parole finché il bassista non si mette a slappare come Mark King, che non è un rivale di Soldatino e D’Artagnan, ma un simpatico musicista dell’Isola di Wight che fondò i Level 42. Sul terzo pezzo, parte la riscrittura funky della Guerra di Piero e lì cala un rispetto per De André che manda un po’ in vacca il ballo furioso appena archiviato.
Lucianino ha un sogno in tasca travestito da cannone a elle. L’accende e non pensa, perché pensare è fatica di meningi e invocazione di epistassi. Mariannina gli chiede di dare un tiro e saliva sulla saliva di lui con la profanazione pudica di un bacio indiretto. Il gioco si ripete e stavolta è lui a gustare il sapore delle labbra della ragazza. Parte un blues in minore, autoritario e dolente.
- Sai perché i Level 42 si chiamano così?
Chiede Lucianino.
- No. Perché?
Chiede Mariannina. Si aspetta una risposta qualunque, da coatto in contumacia, e invece si becca una perla di saggezza:
- Erano appassionati di Douglas Adams e della Guida Galattica per gli autostoppisti. E 42 era...
-...la risposta alla domanda sulla vita, l’universo e tutto quanto!
Che tu puoi anche andare a un concerto per farti un cannolo e due risate, ma se sei fortunato puoi incontrare la donna della tua vita. Oppure morire per un cavo scoperto. Che è la stessa cosa, se ci pensi.

giovedì 29 novembre 2007

Pussycats Power: Il fungo della fertilità




Dopo due anni di assenza, i Pussycats Power escono con il loro terzo lavoro.
Si sono appena spenti (o forse no?) gli echi di Emirates for single shot, un disco epocale, un lavoro immenso e germinale che ha aperto le porte della percezione a una generazione di epigoni: chiedere ai Soul Mecha o al Pete Orango di Niet, please.
Due anni di assenza, dicevamo. Ma due anni spesi bene. Le chitarre di Salmadian Carter si sono risciacquate nell'Acheronte di un disco solista (Stars & Discipline) praticamente perfetto. Il basso di Emilio Munari ha cavalcato con i Mood for Jerusalem, testimonianza ne è il bel live tratto dalla tournée in Polonia e Ukraina. Il batterista-cantante dei Pussycat Power, Jerry-Lee Franza, ha suonato sotto le bombe e dentro le cantine di oscuri porti francesi, in cambio di un anonimato e di un set di pentole di rame di fine Ottocento. Ma mettiamo su il vinile e lasciamo partire questo Woman in mushroom sauce, che già dalla copertina promette cocktail lisergici e frammenti di rock da consegnare all'eternità. Geniale la foto: una donna nuda che si imbarazza di fronte allo spettacolo disturbante di una divisa insanguinata, ricoperta di funghi. Sullo sfondo, una foresta primeva.
Il primo pezzo è quello che dà il titolo all'album. Una marcetta decadente, cadenzata da una chitarra accordata in Re e da un basso profondo come un colpo di cannone in una chiesa. La batteria non dà tregua e salmodia il ritmo di un'autentica esecuzione. I brividi sulla schiena ci fanno capire che non siamo in paradiso, e che non ci finiremo mai.
Attacca la ballata semi-acustica On the tongue again e la neve si scioglie nei cuori e nei bicchieri. "Lei non c'è, perché non c'è mai stata. Al suo posto, tupperware pieni d'insalata" è la frase che voremmo aver scritto noi, poveri cronisti dell'altrui talento.
Poi tocca alla polka ruvida di Cent Sentinel, storia di un soldato (il padrone della divisa fungo-dotata?) che sceglie di uccidere un inoffensivo maiale per non essere costretto a sparare al suo nemico. Qui tornano gli arpeggi dissonanti del loro primo disco, Overminus in minor, che la critica salutò con aggettivi freddini e definizioni costrittive. Si parlò di buoni segnali e di seminalità dispersiva. Tutto qui, ci credete?
Il quarto pezzo è Storia della Musica, così, in italiano. E mai titolo fu più azzeccato. Del resto, Franza e Munari si sono incontrati al Dams e vanno ancora a pesca nelle valli di Comacchio. Storia della Musica, dicevamo. Chopin che incontra il Maleriancic di Post Prandium, con la voce di Franza che diventa un ponte tra l'uomo e il suo dopplegang taumaturgo.
Il quinto e ultimo brano - un po' breve la fatica dei Nostri, ma per una durata complessiva più che soddisfacente - è Morphine for no pain, ghirigoro sonoro baciato dalla grazia, con un a solo di chitarra che prende in prestito dinamiche da violoncello e l'agilità melliflua di un grande flauto traverso.
Concludendo. È un disco aperto, questo Woman in mushroom sauce. Come la vita. Come l'orizzonte. Ma si tratta di una vita malata, con le radici ben dentro il marcio di una palude decomposta. E l'orizzonte è un lusso che non ci possiamo permettere, almeno finché i nostri occhi saranno rivolti verso l'interno. Almeno finchè non smetteremo di sentire e non cominceremo, invece, ad ascoltare.

Pier Paolo Marcandreasi

lunedì 26 novembre 2007

La faida



Il fato l’ho inventato io. Ho preso in prestito da un dio ipermetrope un pugno di mosche cieche, una mappa del tesoro e un paio di forbici d’oro. Ed è successo che ero in un locale, bevuto come uno che ha bevuto cattivo. È finita a spinte, come da piccoli, solo che adesso spingiamo più forte. Quello è andato giù pesante e ha distrutto una vetrata piena di bicchieri. Oggi torno a pagare i debiti, perché sono un pirata e un signore, professionista nel dolore. Il barman fa la faccia simpatica e mi dice che non è successo niente, che siamo tutti uomini, soprattutto quando si tratta di donne. Io non ricordo e non mi sforzo, prendo la birra che mi offre e gli lascio centoventi euro sul bancone. Cara, la birra, da queste parti.
Arrivo a casa col sorriso dei giusti, che è uguale a quello di chi l’ha fatta franca,. A pensarci bene, una Franca me la sono fatta davvero, quando studiavo al magistero. I premiti addominali cominciano piano, rumori da idraulico e denti da piranha che si fanno strada nel ventre. Nel mentre, capisco. Guttalax nella birra, una boccetta intera. Non chiamo aiuto, ce la devo fare da solo. Acqua e Polase, limone ed Enterogermina, ma la notte è lunga e mi passano per la testa pensieri di morte. Una morte di merda.
Visualizzo una salita e comincio a pedalare, tanto, seduto sono seduto e a sudore non scherzo un cazzo. La faccia del barman, il suo sorriso osceno, diventano un traguardo da raggiungere a ogni costo, anche perché i controlli antidoping non porteranno a nessuna squalifica. Come nella vita vera. Al mattino, sono ancora vivo, incartapecorito come uno dei Pooh e con il fumo agli occhi che neanche ai concerti ne ho visto tanto. Torno al pub, camminando lasco, superstite del Vietnam dei miei intestini, Rambo che non voleva casini, ma tant’è. Nei miei occhi c’è scritto: uno a uno, pareggio onorevole e giocavo pure fuori casa. Stavolta la birra la offro io e stringo una mano che mi promette la totale assenza di rancore. Ridiamo di cazzate, di Franca e di Maria. Poi gli offro una birra, e così sia.
Torno a casa e dormo come un bimbo, dopo un riso in bianco che non fa nemmeno troppo schifo. Al mattino investo 5 euro nella rassegna stampa. Sfoglio piano, leggo tutto e la notizia non tarda a mettersi in mostra, incorniciata tra uno scippo e l’iniziativa del sindaco, che vuole meno barboni e più sagre: Uomo nudo rincorre messo comunale e gli chiede di sposarlo. Ci ho rimesso due acidi, sciolti nella birra del mio rivale, ma ci ho guadagnato una bella faida. Due a uno per me, l’arbitro fischia la fine. Il fato l’ho inventato io, pochi cazzi.

giovedì 22 novembre 2007

Non era la mia guerra





C’è lei che dice sempre che non beve vino, ma se gliene lascio un po’…
Come per il caffè, che giusto un dito dal tuo bicchiere, non zuccherato.
Aspetta i miei slanci, ma non li incoraggia, come una maestra un po’ delusa dal suo alunno migliore. L’ho scelta tra due candidate al concorso del mio scalpo di scapolo, in un anno in cui le vacche erano magre e pure un po’ pazze.
E baci a mille sotto ai portoni, i cappotti sferzati dal vento sollevati da mani impazienti. Fuori tutte le sere, a far finta di andare fuori. Io leggevo Spillane, lei Richard Bach. Provammo a fare a cambio, ma non funzionò granché: troppe poche pupe spietate e troppi gabbiani saccenti. Poi andiamo a convivere, perché è un'esperienza da fare. Lei attacca foto di gente estranea su pareti che credevo mie e riempie il frigo di cibi da femmine. Niente capocollo, molti yogurt. C'è crisi di mortadella, ma un trionfo di cavoletti di Bruxelles. Che poi dice che in Belgio si soffre di una solitudine inconsolabile: ci credo.
All'improvviso, la mia musica non va bene. Che ci troverò in quelle chitarre distorte? Il canto del lama, invece, ti rimette al tuo posto nel mondo. Io non mi fido, perché i lama sputano, è risaputo. E il mio posto nel mondo mi piaceva di più prima. Era una nicchia invisibile, coperta da cellophane spiegazzato, quello che ci foderavi male i quaderni delle elementari. Era un posto pieno di nebbia, che invece a guardarlo bene era fiato rappreso, cristallizzato in volo da una giornata di quelle fredde in cui Roma è un parcheggio dell'Ikea pieno di monumenti e scippatori.
In mezzo, di lato, dovunque, c'è la vita di tutti i giorni. È una cosa enorme, pesante, faticosa, difficile perfino da dire, come uno di quei segreti che uno sceneggiatore americano ci campa per tre film. È roba di ossa lise, di piegamenti per raccogliere calzini sporchi, di cassetti pieni di ricordi talmente antichi da sembrar reperti. La fila dal dottore, chi è l'ultimo, speranza riposta in un superenalotto rancoroso ma sognante, pasta cattiva alla mensa aziendale, telefona a tua madre, telefono a mio padre, passa a prendere la roba in tintoria, rinnova il documento.
Lasciami stare.
Ho mangiato verdura e bevuto latte dopo Chernobyl, ho diviso traiettorie urbane con Jack Lametta, ho partecipato ai fumerali di Berlinguer e a quelli di un mio amico giovane.
Lasciami stare, o scateno una guerra che nemmeno te la sogni…

domenica 18 novembre 2007

My way



- È tutto a posto, è tutto normale.
Disse Paul Tibbets, che aveva chiamato il suo aereo Enola Gay.
Era il nome di sua madre, non poteva esserci nascosto dentro qualcosa di male. Bombe atomiche e confetti sulla Seconda Guerra Mondiale.
Io sono nato tanti anni dopo, il mio aereo l'ho venduto per un pallone, ho combattuto guerra di trincea in cameretta, ho conosciuto l'amore di striscio, non ho fatto prigionieri, ho scritto racconti stralunati e li ho pure pubblicati.
- Devo fare pipì.
Disse Lucky Luciano e si alzò dal tavolo del ristorante. Al boss Joe Masseria non venne il sospetto e si beccò pure lui qualche confetto.
Io ho imbrogliato per non fare il militare, ho mentito per secondi fini, ho preso parte ad agguati alimentari, saccheggiatore notturno di frigoriferi esausti.
- Sono più bravo come pittore.
Disse Django Reinardt dopo un concerto trionfale, cuore da zingaro e dita mancanti da mafioso che ha tradito, cravatte sbagliate e cappelli flosci.
Io ho suonato per anni la stessa canzone, ai falò sulla spiaggia che hanno dato tanto alla mia generazione: fidanzate e sabbia nelle scarpe in egual misura, due tipi diversi di fastidio e di incazzatura.
Poi, se vai a fondo, scopri che alcuni pezzi di Django sono finiti dentro al videogioco chiamato Mafia e che il musicista, non contento, ha scritto una canzone che si chiama Nagasaky, che è un trionfo del divertimento.
E allora io che ci sto a fare? Copioincollo, riassumo, prendo appunti, ma non sono decisivo. Entro nei minuti di recupero, tengo palla vicino alla bandierina, mantengo il risultato in attesa del fischio finale. E mi becco non giudicabile sulla pagella del giornale.
- Non arriverò a venticinque anni.
Disse Sid Vicious, che però ha fatto in tempo a inventare il pogo.
Io prendo a spallate un foglio bianco e sputo sangue e denti dal palco sperando che serva, ma non saro mai una rockstar perché ho studiato e non riesco a imboccare la deriva punk.
- Cunt!
Disse John Mcenroe all'arbitro, che vuol dire idiota, ma anche sorca.
E vabbe', allora lo fanno apposta: Cunt, disse John Lydon all'Isola dei Famosi versione inglese. John Lydon, alias John Rotten, cantante dei Sex Pistols.
- Caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare.
Chi l'ha detto?

mercoledì 14 novembre 2007

Spoiler



Silvana era seduta al tavolino del bar.
Minigonna, maxitacco, rossetto alla ciliegia, maglietta aderente, prominenze ardite e le risalite. Ho visto beccacce nella stagione della caccia vivere più tranquille di lei.

- Signorina, lei permette?
- Dipende.
- Volevo offrirle una cosa da bere.
- Grazie. Una magnum di Krug dell'ottantanove.
- ?
- E' una cosa da bere…
- Io andrei.

- Bella bionda, sei sola?
- Sì. E c'è un motivo.
- Aspettavi me.
- No. Ho l'erpes sul cuore. Se mi innamoro, per curarmi poi ti tocca sposarmi.
- Ho un mezzo impegno con una mezza zia.

- Come t'intitoli?
- Ugo.
- Ma non è un nome da donna!
- No, ma ben si adatta a quello che ho sotto la patta.
- Mi chiude il fornaio, vado.

Poi arrivò il Paguro, così nomato per la timida compostezza dei modi e per la sua paura di vivere lontano dalla conchiglia. Silvana sospese l'esercizio della respirazione per quell'istante che fa tutta la differenza del mondo. Il Paguro alzò il volume delle cuffiette e i Guns gli spiegarono che a Paradise city l'erba è verde e le ragazze carine.
In mezzo, a rovinare tutto, un paesaggio non tanto urbano, soprattutto per via dei rumori: lavori in corso e gare di rutti, tacchettio di puttane in ritardo sul lavoro, mamme che chiamano figli coi nomi sbagliati, rigore, no, al massimo è punizione a due in area. Silvana sorrise a caso, che non fa mai male, e indicò le cuffiette come fossero un segreto di cui ambiva a far parte. Il Paguro le disincagliò dalle orecchie e le passò alla visione dalle fattezze di ragazza, sicuro che si sarebbe svegliato di lì a poco a causa di una polluzione notturna. Lei inforcò l'Ipod, che in quel momento riprodusse casualmente una canzone di Guccini. Il dialogo fu fluido, come succede nei sogni fatti a occhi aperti:

- Anche a te piace Guccini? (Io lo odio, ma tant'è…)
- Lo adoro! (E' una canzone scaricata da mi' sorella…)
- Piacere, mi chiamo Silvana. (Lo sto facendo davvero?)
- Io mi chiamo Paguro. Cioè, Carmine. (Meglio Paguro…)
- Prendi qualcosa? (Magari me…)
- Le cuffiette. (Me sa che ho detto 'na cazzata!)

E poi risero e parlarono di genitori divisi e di visi in generale. Convennero che la minigonna non sta bene a tutte le ragazze e che l'amicizia tra uomo e donna è possibile, soprattutto se lei è una cozza con l'apparecchio incrostato di spinaci. Si lasciarono a malincuore davanti casa di lei, promettendosi un incontro più elaborato e soddisfacente per il giorno dopo. Il Paguro, più tardi, rientrò nei suoi appartamenti, si tolse la conchiglia e baciò sua sorella sulla fronte. Era l'unico al mondo a conoscere il perché delle proprie azioni, come un agente segreto o come qualcuno innamorato da poco. Io sono una persona informata sui fatti, ma non mi chiameranno a testimoniare, perché sanno che posso uccidere il Paguro e Silvana in un secondo o mandarli una settimana in vacanza a spese mie. Volete un esempio della mia forza? Eccovi accontentati:

Silvana era seduta al tavolino del bar.
Minigonna, maxitacco, rossetto alla ciliegia, maglietta aderente, prominenze ardite e le risalite…

martedì 13 novembre 2007

Ultima replica



L'attrice sul viale del tramonto ha più pelle di quella che le spetta. Non le hanno mai rubato la bicicletta, ma insomma, qualcosa le manca. È quello scatto alla fine delle scale, quel sorriso da ospitata televisiva: insomma, quelle robe sottili e grossolane, da autentica diva. E pensare che un tempo riempiva teatri e letti, ippodromi e letti, cinema e letti. Qualcuno la chiamava Miss Sbracadivanetti.
Ha sorrisi per tutti, lacrime in tasca e borse firmate con dentro polvere di lana. Ha guanti lunghi e braccia secche, piedi ballerini con ambizioni da colibrì. Nessuno l'ha vista piangere quando non serviva. Ha avuto due figli da mariti diversi, una femmina e un maschio innamorati dello stesso uomo. Ha un cane piccolissimo, cui compra cappottini dai colori sgargianti. La musica che ascolta è un contrappunto delizioso tra il silenzio e il nulla, colonne sonore e cantilene da culla, canti partigiani e stridenti marcette. Ogni luna piena ha la tentazione licantropica di rifarsi le tette. L'ultimo libro che ha letto era di genere storico: Le grandi invenzioni di Archimede Pitagorico. E intanto il tempo se ne va, bambolina di tulle. Si è sempre aggrappata forte ai rossetti e ai profumi, perché i balocchi - si sa - non li ha mai amati. Molto meglio giocare dal grande schermo con gli sguardi adoranti di cinefili cassa-integrati.
La ferma il vigile urbano, che è colpevole due volte. Primo, non la riconosce. Secondo, è immune alle ciglia col riporto, saracinesche flappanti che chiudono e riaprono l'attività di occhi stanchi. Sessantotto euro per divieto di sosta: in fondo è un buon prezzo per essersi fermata. La prossima contravvenzione sarà la più salata.

domenica 11 novembre 2007

Paolo il caldo


Paolo si era fidanzato presto. Erano le nove di mattina di nove anni prima. Lei si chiamava Monica e portava i jeans come una seconda pelle, quelli che li togli con la lametta o con contorsioni da Houdini dei giorni nostri.
Dopo sette anni, sei mesi e un giorno, Paolo razionalizza: non ama più quella donna, ex-ragazzina, appesantita e critica sul suo odore intimo. Bisogna lasciarla e impedire che soffra. Monica, dal canto suo, soffre già da due anni di tradimenti in corso, che - come gli omonimi lavori - non finiscono quando preventivato. Ha conosciuto uomini in senso biblico, rimorchiati in parrocchia e al mercato.
Lei lo guarda, quel fidanzato stanco. Non è più come prima, frizzante e spensierato. Non la stringe fino a soffocarla, non le fa più sorprese, non le lascia biglietti sotto al cuscino, non le telefona solo per dirle niente.
Lui si sveglia con un topolino nel cuore, onesto roditore che fa solo il suo lavoro: trasformare in dolore ogni parvenza d'oro. Si trascina in bagno, organizza un bidet e un gioco di specchi per sembrare meno calvo e più com'era prima, quando sorrideva alle ragazze e alle signore sole sognando un sistema per farle sdilinquire.
Monica si veste con cura, cambia idea e colore una decina di volte. Lungo, corto, bianco, marrone, jeans. Jeans. Gli stessi di nove anni addietro. Sorrisi di circostanza, perché c'entra dentro ancora. Paura di quello che rappresentano quelle chiappe sode: l'esca per qualcuno o la paura che nessuno sia meglio di Paolo. Prendono insieme l'ascensore e lui la guarda come per dire: stai alla grande, amore mio. E invece dice: vado a giocare a calcetto. L'aspettativa è delusa, il passaggio a livello sollevato. Monica esce incontro al mondo come una lingua incontro al gelato.

martedì 6 novembre 2007

Risposte nate morte




- Sei sicura che Gin Lemon non era quel cantante che cantava quella canzone?
- Sì. Sono sicura.
- Forse mi sbaglio io.
- Sì, Franci. Ti sbagli tu.
- Il fatto è che l'inglese proprio non l'ho studiato e non l'ho capito. Che devo fare?
- Carpe diem…
- Questo è francese!
- Questo. È. Francese.
- Ah! Il francese lo conosco. Mio zio è di Torino, lì vicino.
- Sai, Franci… stasera esco con Mattia. E ho paura di ricascarci ancora.
- E ci ricaschi sicuro! Perché tu sai il francese e l'inglese, ma di ragazzi non ci capisci niente.
- Dimmelo tu, allora. Che devo fare?
- Esci. E goditi la serata.
- Ma dopo la serata c'è un altro giorno! Che senso ha?
- Hai il tipico difetto di chi ha studiato. Non ti godi il momento, pensi troppo al futuro.
- Quindi… Carpe diem anche per me?
- Carpe, orate, mangia quello che ti pare. Ma metti da parte quel muso, che mi sembri mia nonna. Bella donna, eh… ma sempre preoccupata di tirare a campare.

E così mi godo il mio Mattia.
Bacio la bocca che ha dato altri baci.
Mi tengo lontana dalla progettazione, affettando un sorriso da Gioconda contro il suo occhio bovino da Joe Condor.
In macchina, ai Pratoni del Vivaro, puoi inventarti l'amore e fare a pezzi una Micra. Se ci ripensi, ti chiedi dove avevi la testa, in quel momento.
Sul cruscotto, ecco dove.
Se ci ripensi, non sei proprio il tipo che si fa la sveltina, che si sveglia da sola la domenica mattina, che si sistema le calze bagnandosi le dita, che cerca di sorridere quando è finita e di dire che è stato bello.

Mattia mi lascia sotto casa e riparte sgommando. Canzone nel suo stereo: La dura legge del goal. Uno dei motivi per cui ci siamo lasciati: gusti barbari contro gusti raffinati. Io sarei ripartita con calma studiata, sulle note di un De Andrè d'annata.
E Franci, allora? È una pietra tombale, quanto a raffinatezza. Ma un'amica è diversa, non te la devi sposare. La chiamo al cellulare:

- Franci…
- Teresa! Com'è andata con mattia?
- Come sapevo.
- Ah. Allora è andata bene!
- Perché?
- In amore, le sorprese sono belle solo il primo mese.

Riattacco e sorrido come sorridono i killer. Mi cerco in tasca le chiavi e nel cuore la risposta, ma non faccio un buon lavoro in nessuno dei due casi. Citofono. Purtroppo, si apre soltanto un portone.

giovedì 1 novembre 2007

Segretissimo





Se torno a nascere faccio il carrozziere:
- E niente, me la devi lascia'. Devo riporta' tutto a vergine…
O il dentista, equilibrista della fattura mancata.
O l'idraulico, che si tromba le signore. Cinquanta euro solo la chiavata.
Mi lascio alle spalle la civiltà occidentale, le belle lettere, gli studi matti e disperatissimi, in cambio di piedi dolci da cameriere. Niente mani da pianista, ma calli da cantiere, ottanta euro al giorno e tante canottiere.
Oppure metto su una pizzeria a taglio, egiziano incluso, e guadagno duecento euro al giorno, che la pasta della pizza costa niente.
E poi voglio prendere decine di treni andini, quelli che si arrampicano come vermi osceni verso un cielo blu cobalto. E capire se la ragazza di Ipanema la smolla anche a un panzone di Crema, distinto, pulitissimo, generosissimo, entrata indipendente.
Poi vado a vivere in campagna, che se ti scordi il latte devi prendere la macchina. Farò lavoretti in giardino, niente prato inglese che è una schiavitù. E barbecue estremo per amici avvinazzati, che tornano in città alle tre di notte, poveri disgraziati. E io rimango a veder le stelle, prigioniero degli stessi ricordi di quand'ero me stesso, ma schiavo di un esercito di grilli e di zanzare.
Il segreto della felicità è farcela, sempre e comunque, sotto ogni tipo di cielo. E averne ancora per mettersi il pigiama, sorridere da soli e buonanotte. Che domani è un altro giorno, tra cose che non sai, luoghi comuni, settimane enigmatiche e vecchi fantini che vanno ancora a mignotte. L'ho letto da qualche parte o l'ho inventato: sotto la cenere non c'è il fuoco, ma una parodia di brace. È inutile bruciare, se non ne sei capace. E allora tira avanti, passi piccoli e cadenzati, da guida alpina o da degente in ciabatte. Il gatto sulle gambe, la coperta a quadri, il camino, la vestaglia, una moglie che non te la dà vinta e non te la dà affatto: desideri o incubi, chi può dirlo? Per ora, amici miei, mi godo questo libro, a rischio di finirlo.

lunedì 22 ottobre 2007

Piccoli delinquenti crescono




Scippi e furtarelli fanno i figli belli. Damiano aveva facilità di mano e sapeva arrangiare il pranzo con la cena, ladro di periferia e cliente fisso dell'hotel Rebibbia, cella singola o doppia, a seconda della disponibilità.
In carcere aveva conosciuto Nico, bello come il sole e altrettanto mortale, se lo guardavi troppo a lungo.
I due erano usciti a una settimana di distanza l'uno dall'altro e si erano visti a San Basilio per un chinotto.

Il mondo è cattivo, Damiano.
Il mondo è lontano, Nico. Non ci si incula di pezza.
E noi meritiamo di più.
Non lo so. Forse abbiamo avuto già troppo.
Seguimi. Ti renderò grande.

Le pistole: una funzionante, l'altra più simile a una mortadella Beretta che all'omonima arma da fuoco. I due camminavano tranquilli, eroi al crepuscolo della civiltà occidentale. La meta era un bar aperto 24 ore al giorno, solo una cassiera e uno che fa i panini anche di notte: salsiccia, peperoni, funghi, hamburger, salse varie.

Adesso entriamo e li purghiamo, Damiano.
Sì, Nico. Ma non toccare quei panini, sennò ci ricoverano e ci purgano a noi.

Così parlavano i due amici, per caricarsi e per sdrammatizzare. Poi, all'improvviso, qualcosa si accese nella testa e il dialogo filò via più retorico e di genere:

Questa è una rapina, apri la cassa, fermi o vi ammazziamo come cani, se chiamate la polizia siete morti.

L'omelia del perfetto rapinatore venne snocciolata senza imprecisioni. Duemila euro e spicci ficcati dentro la borsa della palestra, tutto procedeva alla perfezione. Poi, all'improvviso, dalla porta entrò Floriana. Una ragazza, quando è innamorata, riconosce a distanza siderale l'oggetto del proprio amore. Figuriamoci se l'oggetto è un rapinatore che aveva promesso di smettere, di uscire fuori dal giro, di ritirarsi in campagna a crescere figli e conigli.

Damiano allargò le braccia e sorrise male, come un vigile impotente di fronte a un ingorgo.
A Floriana venne in bocca un ghigno, che si arrampicava a fatica.
Nico, invece, puntò la porta come Voeller in contropiede.

Mi fai schifo, Damia'. Tu non mi vedi più.
Posso spiegare, Floriana. Ti spiego tutto.
Andiamo via, Damiano. Scappa.

Il barista prese il fucile, che la terza rapina in due mesi era veramente troppo. Uno dei rapinatori infilò l'uscita, ma quello con le braccia larghe e la borsa da palestra in mano gli dava le spalle e parlava con una ragazza.

Io ti ammazzo, stronzo.
No!
No!
Oh, sì.

Giornalisti e curiosi, due righe in cronaca, due lacrime in croce piante da chi lo conosceva bene, che non era cattivo, ma non era mai contento, Damiano, proprio come suo padre. Floriana si consolò con un macellaio di Monteverde, che aveva sangue sulle mani, certo, ma sangue onesto. Nico varcò il confine con la Francia e vide la finale dei mondiali in un bar di Marsiglia, tifando per l'Italia come non aveva fatto mai. I portuali francesi lo guardarono in faccia e capirono che era meglio lasciarlo perdere, che certe facce sono come una firma, uno svolazzo di ceralacca, una cicatrice fatta in galera con un chiodo arrugginito: Mamma ti amo, Non sono pentito.

martedì 16 ottobre 2007

Il buco dello scrittore



Giancarlo ha un buco nel cuore, a forma di balcone. Ci si affaccia di notte e si guarda soffrire. Ci passa la luce, che non lo fa dormire. E allora si concede un sigaro e un liquore, uno short message e un po’ di chat su un sito di sole persone sole.
Marisa ha un buco nel cuore, a forma di sorriso. Forse, se lo guarda da vicino, più che a un sorriso somiglia a a una maniglia che non apre nessuna porta. E allora Marisa si chiude in se stessa, trovando più interessante un delirio di ricordi che aspettative bruciate come petardi.
Armando ha un buco nel cuore, a forma di scudetto. E ancora tira rigori contro saracinesche chiuse. E ancora cerca tonnellate di scuse per tornare abbastanza tardi, quando tutti gli altri hanno abbassato la guardia: russa la madre Russa e dorme il padre padrone.
Serena ha un buco nel cuore, a forma di buco. Ci ficca dentro un dito, rimesta e molesta, come si fa con le pellicine fino a farle sanguinare. Perché a lei piace farsi male, in amore e in guerra, campionessa di girotondo e tutti giù per terra.
E infine c’è il modesto scrittore, che nel buco ci ha messo un operaio col caschetto: stiamo lavorando per voi, vecchi che si affacciano a controllare gli scavi, che ai tempi miei era meglio e se fai un buco a Roma escono fuori cocci e tappi di Campari. L’ispirazione è in fuga, non la riprendono i gregari.

venerdì 12 ottobre 2007

I'm still alive





Il mio amore è un circo notturno, accampato a un passo da casa. Rumori lontani, il ruggito di un leone drogato, e non c’è un vero pericolo se non quello sognato.
Torno sempre troppo tardi per parlare.
Torno sempre, però. E questo è un fatto.
Ti ho vista dormire col sorriso di chi ha lavorato nel solco della sua generazione. Io sono fuori sincro, doppiato male, dovresti sentire Al Pacino in originale. Non seguo serie tv: troppo serie. Vedo le partite e il telegiornale. Mangio fuori, m’impiglio davanti a un menu, cercando di capire se l’amatriciana è pasta difficile da digerire o ballo sudamericano da sambodromo deserto. Mark Knopfler ha il tocco, ma suona solo col pollice e senza la penna. Eddie Vedder è nato il 23 dicembre e ha sempre beccato un solo regalo: compleanno e Natale. Come vedi, anche le rockstar stanno messe male. E che dire di Bob Dylan, che non lo capisce nessuno? Scrive canzoni che cambia ogni notte, nella speranza che tornino i pensieri buoni di quando era solo Robert Zimmerman, ragazzino magro alle sue prime cotte. Gli eroi muoiono all’alba, con un filo rosso all’angolo della bocca, proprio lì dove gli hanno applicato l’attacco piccolino dell’asola dove passa il filo da burattino. Ho comprato una macchina usata per portarti al mare, ma poi mi sono accorto che Venditti voleva farlo con Sara e così l’ho venduta per una giacca a vento, qualcosa che mi preservasse dal freddo di questi tempi di pochi accendini ai concerti e di troppi maghi esperti di vini. Parliamo poco, dici tu. Ma stiamo parlando, dico io. Ed è il processo finale di una distillazione di pensieri. Il resto è argano da erezioni e reggiseni consumati, dopobarba regalati da suoceri distratti, femminilità sparpagliata a un tanto al chilo. Ti guardo, respiro. Sei a portata di mano e sono ancora vivo.

martedì 24 luglio 2007

Punishing kiss






Caffè e cornetto, totocalcio e totip, flipper e Space Invaders: la vita di Giovanni, detto Kamasaro, procede a coppie fisse come gli schiaffi, quelli che non diventano mai dispari.
Fuori dal Bar 2000, si accende le Marlboro dure con i fiammiferi svedesi. Che poi, a pensarci bene, 2000 è due volte 1000, e stiamo parlando di un anno di là da venire, talmente lontano che ci saranno robot a coppie, se non a doppie decine di migliaia.
Anche la ragazza arriva da lontano, nel senso che scende giù da Viale Furio Camillo e all’inizio è un punto bianco e nero dall’andatura promettente. Kamasaro ingoia il fumo con foga ordinata e dalle due narici escono sottilissimi scarichi, da doppia marmitta efficiente.
Lei si sta avvicinando e le promesse diventano concrete realtà. I seni sono sodi e sfidano la gravità della forza medesima. Le gambe tornite e belle danzano tuca-tuca su zeppe trampolate. E gli occhi. Due. Azzurri. Vispi come un Campari doppio, con due cubetti di ghiaccio. Il Kamasaro prepara un approccio classico e uno originale, mentre lei passa oltre e mostre due chiappe da pesca giallona inzuppata nel vino. L’approccio originale ha facilmente la meglio per due a zero e il nostro articola la seguente frase:
- Scusa... sto preparando l’aggiornamento dell’Elenco del Telefono e mi manca il tuo numero.
Lei si volta, sorride e fa partire il suo contributo alla storia di questa storia:
- Io ti conosco.
- Davvero?
- Sì. Sei il romano medio, quello che non fa un cazzo, che vive fuori al bar e dà fastidio alle ragazze con un bel culo. Sei tu?
Il Kamasaro valuta attentamente e scuote due volte la testa.
- No.
- E chi sei, allora? Stupiscimi.
Il Kamasaro sorride, trasformando la Marlboro in un proiettile tracciante, che fa due rimbalzi sull’asfalto e poi muore.
- Campione di Flipper e di Space invaders, licenza media presa in sei anni, due sorelle estetiste, una madre, che però si è sposata due volte e quindi vale doppio. Due cani, due gatti.
La ragazza si avvicina e valuta il coatto. Parte un bacio dispari e il Kamasaro capisce che niente ritorna, perché tutto parte per destinazione ignota, con un biglietto di sola andata. Il Bar 2000 partecipa al bacio con la colonna sonora di una radio privata:
- Da Egle a Paoletto: Just the two uf us...
E non c'è niente da capire.

lunedì 9 luglio 2007

Mitologia romana





Col pieno di benzina e l’arbre magique nuovo se po’ gira’ tutto er monno. E m’accompagno da me.
Questo pensava Orlando, detto Ulisse per via di un’astuzia presunta e di una leggendaria capacità di non trovare quasi mai la strada di casa. Il doppiamente epico personaggio vagava tra via Prenestina e via Tuscolana, sfruttando il varco dimensionale segreto del Mandrione, zona tanto cara a Pasolini e ad altri intellettuali di sinistra, che però non ci avevano mai abitato. Un’ambientazione da sforneeeescion, con tanti Ninetto Davoli dal sorriso sghembo e pochissimi fornai in bicicletta. Ulisse sorrideva sicuro, le mani alle dieci e dieci sul volante dell’Alfa 33, cane Argo praticamente senza marmitta che obbediva a lui e a lui soltanto. Poi, il dramma. Davanti al baretto di Salvatore, calabrese di origine protetta, c’era appostato Zanna. Impossibile ignorarlo, sconsigliabile passare oltre. Ulisse organizzò il suo sorriso da guardachiccètestavopecchiamàio, parcheggiò l’alfa con colpo di coda da gatto annoiato e scese al volo, simulando spalle grosse e voce da sceriffo di vecchio corso.
- Ciao, Zanna. Come butta?
- Butta che me devi rida’ trecento sacchi.
- Domani pomeriggio va bene?
- Oggi pomeriggio va meglio.

Zanna aveva sorriso solo una volta, al funerale di suo zio Palomba. La chiusura della cassa aveva aperto un asse ereditario interessante per le sue finanze.

- Vabbe’. Oggi pomeriggio ci rivediamo qui, alle sette.
- Sì. E ricordete ‘na cosa, Ulisse.
- Cosa?
- Se non paghi, io non me la prendo co’ te, ma co’ quella biondina che te schiacci da due anni. Chiaro?
- Chiaro. Ma non ti devi preoccupare.
- Io non mi preoccupo mai. Quello è il tuo, di ruolo.

Ulisse annuì e partì alla svelta con il suo cane Argo, lasciando una generosa mancia in pneumatici al buon Salvatore, che si mangiava con gli occhi una pizzetta con l’anduja e una signora di quarant’anni che ne sapeva tante. Femmina piccante, pigliatela per amante.
Ulisse intanto pensava che trecento sacchi si potevano trovare. La biondina che si schiacciava si chiamava Miriam e faceva la logopedista in una clinica privata. Avrebbe protestato un po’, certo, ma poi avrebbe chiesto un anticipo sullo stipendio di ottobre e tutto si sarebbe sistemato. Col cazzo. Miriam l’avrebbe lasciato in tronco e Zanna avrebbe giocato a tris sulla bella schiena di lei.
Via Tuscolana prometteva traffico e sensi vietati, per cui Ulisse impegnò la via Appia con la velocità di Fittipaldi, in uscita dai box dopo un cambio gomme: in palio, il campionato di Formula Uno. Non vide la signora anziana, ma avvertì il distonico urto tra metallo e ossa. Scese a prestare soccorso, simulò un malore, rispose alle domande dei vigili, si assunse la colpa, compilò un Cid (altro personaggio mitologico mica da ridere...) e incidentalmente si mise in tasca la pensione della vecchiaccia: quattrocentottantamila lire.
Perché la vita è ingiusta, ma è piena di grandi opportunità. Trecento sacchi al Zanna e weekend a Ostia, Hotel Girasole, con Federica, che aveva beccato in discoteca un paio di settimane prima.

Stacco. Dalle parti del Lido di Ostia, qualche giorno dopo i fatti.
Federica indicò un posto in mezzo al nulla e disse che lì c’era morto Pasolini.
Ulisse mise su l’espressione di circostanza e disse che la Roma aveva preso Cerezo.
Due marziani, che avevano appena comprato il cornetto del giorno prima, si tenevano per mano.

mercoledì 4 luglio 2007

L'estate di San Martino






- Quanto la fai la pizzetta rossa con la mozzarella?
- Mille e cinque.
- E senza mozzarella?
- Vai dal fornaio e te la compri. Risparmi pure...
- Quanto me lo metti un caffè?
- Guarda, giusto perché sei tu, ottocento lire.
- Un caffè, allora. Macchiato freddo.
Che per campare tocca fare buon viso a cattivo gioco, come Trapattoni l’anno dello scudetto all’Inter. Telefono a Mario:
- Mario, domani portami dieci litri di latte in più.
- Ti serve?
- No. Ci riempio la vasca per la mia ragazza.
- Allora è meglio quello scremato.
- Mi serve, Mario. Dieci litri in più. Hai segnato?
- Certo. So come si fa il mio lavoro, che credi?
Credo che Dio sia morto dopo averci creato. Credo nel sorriso di mia madre, mentre ritira il bucato e lo annusa per bene. Entra una ragazza:
- Buongiorno. Vorrei una Cedrata Tassoni.
- Non ce l’ho.
- Un Chinotto Neri.
- Niente da fare. Ma complimenti, davvero. Lei è un’intenditrice di marche rare.
- Mi dia un sanbitter e dell’aranciata amara, allora.
Questa non la sentivo da un pezzo. Dio esiste, è in un mezzo toscano, in un panino con la mortadella alle sette di mattina.
- Che c’hai una cartina?
- Perché? Ti sei perso?
Chiudo la saracinesca e vado verso casa, schivo cacche di cane di consistenze strane, infilo la chiave nella toppa ed entro. Accendo la luce, almeno quella. Perché il resto è buio fitto. Ho smesso di fumare e non c’è niente che mi scandisca il tempo, se non il rumore di fondo di un mondo nato male, uscito per i piedi dal ventre di qualcuno che ha maledetto ogni giorno il frutto del suo seno. Piange il telefono:
- Ciao, sono Maria.
- Ciao. Che fai, ceni con me?
- Ho già cenato.
A questo punto, non me la sento di chiederle se vuole scopare. Il gentiluomo tace, urla e biancheggia il mare.

martedì 12 giugno 2007

Qualcuno che pedala





Il bambino Mattia, ai tempi dell’Austerity, aveva un secchiello blu e una serie di formine che potevano permettergli di costruire un castello di sabbia coerente. Torvaianica era qualcosa che nominavano i grandi. Per lui, era il Mare. La casa al Mare. L’asciugamano del Mare, prima infeltrito e poi zuppo, quello coi pesci rossi su fondo blu. I suoi amici gli insegnarono un gioco, nell’estate dell’Austerity, qualcosa che aveva regole ben precise e un lampo di creatività nascosto tra le pieghe degli zigomi ridenti. Bastava tracciare una pista sulla spiaggia e poi riempirla di trabocchetti: buche, ponti interrotti e vulcani in fiamme, con un tentativo – subito abortito – di organizzare un attentato improvviso a base di raudi e miccette. Su quella pista, volavano le palline con dentro le facce serie dei ciclisti dell’epoca. A parte la leggendaria grinta di Gimondi, arrancavano faticosi Moser ed esotici De Vlaminck. Ma il bambino Mattia aveva il suo preferito, quel Giambattista Baronchelli che aveva staccato il cannibale sulle Tre cime di Lavaredo soltanto qualche mese prima.
La biglia di Baronchelli era imbattibile e non si trattava di fortuna. Era la cultura del lavoro, un faccia da sparring-partner col rimpianto di una carriera da professionista nata morta. Era qualcosa che ci entrava a stento, in quella biglia.
Gli adulti non capirono le vittorie di quell’estate, non si resero conto che era nata una stella col cuore di Baronchelli e il dito indice di Mattia. Gli adulti preferirono leggere su Paese Sera che le Brigate Rosse avevano aperto un Fronte Logistico, dopo la campagna Sossi. Era morto anche Duke Ellington, se era per questo, pensava la mamma di Mattia. Poi, quando nessuno la vedeva, abbracciava il figlio addormentato e accarezzava ciclisti di plastica in attesa dell’anno nuovo. Un anno buono, il 1975. Con vacanze in montagna, lontano da tutto, lontano da Torvaianica, in un posto in cui Mattia avrebbe fatto le amicizie giuste, diverse da quelle sbagliate perché corredate da un velo di noia resistente e tenace. Le biglie nuove, nel frattempo, avrebbero fatto spazio alla meteora di Fausto Bertoglio, bresciano, passista e futuro gregario di Moser. Dietro ogni campione c’è qualcuno che pedala…

giovedì 24 maggio 2007

Piottarelle e code di lucertola





Il giorno in cui Marcello inventò l’amore piovevano gocce grosse come riso Basmati, per di più eque e solidali. Il bar era pieno di promesse alcoliche, di schedine anonime, di tavolini graffiati da cuori fatti in punta di coltello svizzero e – quindi – neutrale.: Anna ama Simone; Luciano sei bono; io ti aspetterò per sempre. Ma io chi? Per sempre, poi, è un sacco di tempo, soprattutto se il barista non cambia il fusto della spina e il peroncino è uno scandalo di birretta.
Arrivarono, nell’ordine, i seguenti personaggi: Marcello, Chiara, Anna (quella che ama Simone?) e Fijodena.
Marcello aveva i capelli con la frangetta leccata da una mucca dotata di salivazione ottima e abbondante, fisico da poeta, animo da cicisbeo, dopobarba al lime. Chiara è sempre stato il suo bersaglio sempiterno: alta, magra, ma dotata di sise. Faccia rivedibile, da cuscino, ma se la guardi bene è anche interessante, soprattutto per via di uno strabismo che Venere c’è andata giù pesante.
Anna si presentava pesante di suo: settantacinque chili distribuiti a caso su un metro e cinquantasei di donnina. Ma è sempre stata sveglia, si sa, si dice, si mormora. Fijodena, salvando la madre, era un bel fijodenamignotta, furbo come un demone e difficilmente esorcizzabile, vista la sua costanza nell’esercizio della professione di delinquente occasionale.
Il dialogo andò così, più o meno:
- Ciao.
- Ciao.
- Ciao
- Ciao.
Perché l’educazione è importante anche al bar.
Il giorno in cui Marcello inventò l’amore cominciò a parlare di tramonti, Messico e nuvole. Chiara annuiva, ma lo faceva male, fuoritempo come un batterista scarso. Intanto, l’occhio in parallasse con l’orbita terrestre guardava il Fijodena.
- Mio fratello c’è stato, in Messico.
Così intervenne Anna, a tempo come Charlie Parker e altrettanto struggente nello sguardo.
Si scoprì, in pochi istanti, che Fijodena era basso di cavallo per via di un’arma occultata nel dietro dei pantaloni. E questa cosa, a Chiara, fece venire l’occhio bovino, che - stranamente - non si affiatava con il capello a leccata di mucca di Marcello. Piuttosto, il romantico cuore da bar sentì una sensazione strana e divenne una lucertola torturata da un preadolescente obeso. Poi il neorivale in amore disse:
- E’ der Catena. Je areggo er pezzo pe’ due piottarelle.
La frase, di per sé poco talentuosa dal punto di vista lessicale, esplose nel cuore di Chiara dando la giusta soddisfazione a Shrapnel, inventore dell’omonimo ordigno. Er Fijodena prese sottobraccio la ragazza baciata da Venere e la condusse per una strada perigliosa, fino a un matrimonio d’amore.
Marcello, invece, sentì una mano grassottella scivolare nella sua e capì che un corpo può essere bello, se rotola per bene sotto lenzuola fresche di Dash. Fu la prima volta, per entrambi. Solo che Marcello inventò l’amore, mentre la ragazza, come ogni ragazza, lo fece e basta.

lunedì 14 maggio 2007

Radio amatore





Mario, fa’ il favore. Al rientro dalla pubblicità, mettimi quella canzone de Fabrizietto Amici... Se non conosci Roma...
Ecco, bravo. Apriamo le dirette.
Chi abbiamo al telefono? Andrea. Dimmi, Andrea.
Hai votato? E allora ti meriti quello che hai. Sei un uomo piccolo. È per colpa della gente come te che questi continuano a fare quello che fanno. Non ti faccio parlare perché sei un coglione.
Chi abbiamo? Matteo. Gli zingari li spostano da sotto casa tua, ma non risolviamo il problema. Lo parcheggiamo da un’altra parte. Extracomunitari contingentati. Se vengono qui, dobbiamo stare meglio noi e meglio loro, punto. I tifosi che distruggono un treno, lo sapete come la penso. Certezza della pena e non ne voglio più parlare. Cristo era un bravo Cristo, non ha chiesto un cazzo a nessuno, è andato avanti fino a che ha trovato un muro di spine. I preti cominciassero col pagare l’acqua e l’Ici, poi ne riparliamo.
E adesso un redazionale, perché la nostra emittente vive di questo e lo sapete tut...click!

Stefania spegne la radio e pensa a lui, all’opinionista forte, una voce nella mente, ma che lei sarebbe capace di amarlo, di accompagnarlo al lavoro la mattina alle sette e aspettarlo giù, al bar d’angolo, finché non torna, finché non scende. Finché. L’opinionista ha le risposte, anche se lei non ha nessuna domanda, ma ne sente tante da quelli che chiamano in radio e poi...

Click!... Peppino Impastato è morto per un’idea. Altro che i giornalisti con la panza piena, che te scrivono un pezzo pe’ cinquanta euro, un panino co’ la sarsiccia, quant’è bravo il sindaco, a Roma va tutto bene. Se nun conosci Romaaaaa...

Stefania è ammirata. Lui può parlare di tutto e lo fa. Lei conosce due o tre battute fortissime, ma poi aspetta che sia qualcun altro a dirle. Meglio se lei sta zitta e sbatte le ciglia. Meglio...

Chi abbiamo in linea? Stefania? Dimmi tutto, amica mia. No, non devi essere emozionata, anche se è la prima volta che chiami. Fa’ finta che siamo a casa tua, nel salottino, coi parenti e che stai chiamando il fidanzato. Allora? Che mi vuoi dire?

- Io... Click!

Che è sempre meglio di niente.

lunedì 30 aprile 2007

L'Uomo Invisibile





Piove. E il governo è ladro, si sa.
Uno bravissimo ha scritto della pioggia e delle macchie di leopardo che si formano sull’asfalto.
Uno bravo ha fatto piovere per un intero film.
Io per oggi sono a posto, rassettato alla grande e con addosso un cappotto dismesso da un vero signore.
Una donna accelera sui tacchi alti, ballerina sul filo di un marciapiede milanese.
È bella, soprattutto perché è lontana e indifesa. Un ragazzino sorride e si toglie il cappello e la pioggia lo bagna, democratica e sporca come una coperta complice alla festa delle medie.
Un pony express si ripara in galleria e bestemmia con convinzione.
Io guardo le macchine e immagino un killer di Scerbanenco, mosso da ragioni personali ignote ai maniaci di Ellroy, impegnato a seguire una vittima ignara.
Ero professore di Letterature Comparate all’università. Ero padre e marito, amico e passante, automobilista e animale da weekend.
Adesso ho fatto carriera: sono l’uomo invisibile.
Sono un homeless, parola che suona come una frittata riuscita male. E forse lo è.
Sono un barbone, anche se mi rado ogni giorno nel bar di quel mio amico.
Non uso più i nomi, per paura di sciuparli, non uso più le frasi lunghe, per il terrore di perdere l’equilibrio tra i congiuntivi, pericolosi serpenti quando hai pochi denti in bocca.
Uno bravissimo ha detto che adesso sono libero dalle convenzioni, ma questa non è Parigi negli anni trenta e io non so scrivere qualcosa in grado di sopravvivermi.
Sorrido. Penso che l’inverno sia solo un errore di trascrittura in un copione di eterne primavere. Si tratta di fiducia posticcia, di avanzi di salsiccia raccattati in un cestino. Prendo a morsi la vita buttata per terra da qualcun altro, sopravvivo come una tenia e so dare altrettanto fastidio agli occhi di chi mi guarda. E allora, convinto che si tratti di una commedia risibile, mi tolgo le bende e sparisco. L’ho già detto, sono l’uomo invisibile.

mercoledì 25 aprile 2007

Il cronista





Chi conosce Sara sa che stiamo parlando di una strana creatura. Adolescente professionista, presidentessa del fan club romano di Bjork, un’esperienza lesbo, un’esperienza etero. Totale: due esperienze.
Chi conosce Orlando sa che abbiamo davanti un uomo di diciassette anni. Canne e cannoli, girovita importante, peluria di baffi e penuria d’amore.
Ora, non è il momento di esaminare le loro vite, né di ricostruire i percorsi che li hanno portati fino a lì: quella è roba da C.S.I. del destino.
Fatto sta che Sara sta ascoltando Venus as a boy e l’Ipod è la chiave della porta tra la terra e il cielo. Il parco della Caffarella, invece, è un campionario di macchia mediterranea nella brochure di dio.
È un colpo facile. Orlando è un guerriero esperto e con lui c’è Nico, che ha un coltello da pane nascosto nel giubbetto jeans. Sara si avvicina ai due, ma ha occhi solo per Orlando, che crede nella bellezza ed è Venere con le fattezze di un ragazzo.
Nico esamina la ragazza come farebbe un allevatore con una vacca al mercato del paese. Un portafogli con dentro una carta prepagata, dieci-venti euro in contanti, un Ipod Nano. Non male, per sette secondi di lavoro. E poi c’è roba che si può toccare, palpeggiare, per poi finire a respirare tra i suoi capelli da troia a dirle che è meglio se si scorda della loro esistenza, della Caffarella e del coltello da pane.
Parte Sara col sorriso sbagliato, quello che ti inchioda come una farfalla a un vetro.
Parte Orlando col piglio di chi ha resistito a ben altro, ma non è del tutto vero.
Parte Nico col coltello da pane.
Visti da lontano, sono tre ragazzi nel sole.
Visti da vicino, sono tre ragazzi che non hanno capito un cazzo.
Quel pomeriggio, a casa, Sara si chiede se rivedrà mai il suo salvatore misterioso, quello che crede nella bellezza, Venere fatto ragazzo.
Quella sera, al bar, Orlando si chiede se gli rimarrà la cicatrice sulla mano che ha fermato la lama del coltello da pane. Sorride e spera di sì.
Quella notte, davanti al cornettaro, Nico capisce che la città è troppo piccola per uno con le sue ambizioni. Io sono solo un povero cronista senza giornale e mi chiedo se

mercoledì 18 aprile 2007

Queste parole d'amore...




Quando torni dal funerale di tua madre decidi di dare via le sue cose. Perché tu sei uno che ha già pianto e che sa come affrontare certe situazioni.
Soprammobili brutti e centrini con le maglie allargate affolleranno scatole di cartone troppo grandi o troppo piccole: giuste, mai. C’è l’orchestra jazz di cani, comprata a Londra. C’è un biglietto che hai scritto tu a sei anni, con un buoncompleannomamma, corrette le doppie, pochi gli spazi. C’è un biglietto che ha scritto lei a sessantacinque: non ce la faccio più, ma non fa niente. C’è la foto in cui sorride perché qualcuno la guarda. E quella in cui è perfino bella, che quel qualcuno se ne poteva innamorare.
C’è un servizio da the, che il the non le piaceva, ma lo lucidava come se ne andasse del vostro onore. C’è la prima pagella che hai preso, 1971. C’è l’esonero del militare, 1990. E in mezzo, tra due date che ti hanno fatto uomo, c’è il momento peggiore, quello in cui non vi siete parlati per un anno, per via di un torna presto sono grande faccio come cazzo mi pare. Poi, a sorpresa, sbuca fuori il ricordo in fuorigioco millimetrico, la palla curva lanciata con due dita, un killer dei sorrisi, armato di rancore: è un pupazzo della notte, quello che lei aveva buttato. Lo trovi ancora a cuccia tra due pile di fumetti, che ti aveva bruciato. Sono trucchi di mamma, riusciti male. Sono rigidi precetti, volontà inflessibili, spudorati ghirigori educativi. Sono cicatrici d’amore, lampade a forma di gondola, luci intermittenti, pezzi di verdura in mezzo ai denti. Ed è in quel momento, sospeso a mezz’aria tra la schiena sghemba dell’adulto e le dita nel naso del bambino, è in quel momento che scopri l’incapacità del mondo di capire la strada che hai fatto per arrivare fino a lì. Quarantanni e dieci millimetri. Mille chilomentri e un secondo. Le fate, e le mamme, si guardano con la coda dell’occhio, mai schiave del tempo, mai libere davvero. Spegni la luce e dormi. No, aspetta. Meglio la luce accesa. La luce di una gondola, brutta come una solitudine non scelta.

lunedì 16 aprile 2007

Il monologo di un obeso




Mi succhio un chupa-chups al Mango. Why mango?
Cazzi miei.
Glicemia, portami via.
Il colesterolo me lo misurano con un numero complesso, un intero gaussiano Lost in La Pancia.
L’ultima volta che mi sono pesato ho visto la bilancia accelerare a Mach 2, ma avevo la cintura di sicurezza avvolta intorno a un testicolo, a sorreggere un’ernia da sforzo inane. Inutile dirlo, sono buono come il pane. Un metro e ottanta per centosessanta chili. Ossa grosse, tutto qua. Guardate il mio polso, non ce la faccio a circondarlo con un palmo. Guardate quella palma: non fa abbastanza ombra per proteggere il mio corpaccione virile. Così, stendo l’asciugamano bifamiliare in prossimità di un baobab secolare e scelgo se colare o se sciogliermi di botto. C’è una differenza basilare, come tra il vino e la grappa. Distillo perle di saggezza e sudo sette camicie col bottone centrale pronto alla fuga, teso come un arco persiano. Colletto aperto su poco collo, pappagorgia a tre ante. Tra gli enta e gli anta ho viaggiato poco, perché in aereo sto dentro solo alla business class. Sono intelligente e smagato, il volto segnato da rughe nate di notte, quando la luce del frigo anticipa un incontro ravvicinato tra burro d’arachidi e mani cicciotte. Bevo Coca Cola, perché entra piano ed esce forte, come l’affluente di un grande lago. Vulcanico, spesso a riposo. Erutto maagmi in si bemolle, petomane folle dal contrappunto odoroso. Con le donne, mi cimento in ginnastica mentale e perdo due etti di ciglia a furia di strizzate d’occhio. Risultati? In zona retrocessione della serie Zeta, mi scopo ciccione perennemente a dieta. L’insalata è un sogno fatto all’alba, quando muoiono le idee migliori. Vi ho appena presentato il monologo di un obeso, signore e signori...

venerdì 13 aprile 2007

Fare l'amore a Tralfamadore





Kilgore Trout aveva una macchina da scrivere a reazione.
Gli bastava accenderla e veniva fuori sempre qualcosa di buono, magari un racconto che i più attenti hanno potuto leggere a pagina 32 di un numero qualsiasi di “Tope Spalancate”. La sua era una fantascienza pessimistica, che si è sempre differenziata da quella ottimistica per via del fatto che, se c’erano dei missili in giardino, prima o poi qualcuno li faceva esplodere. Sul pianeta Tralfamadore, Kilgore Trout aveva immaginato l’esistenza di cinque sessi, tutti indispensabili per la procreazione. Nessuno ha creduto abbastanza all’esistenza di Tralfamadore. Nessuno, tranne il miliardario Eliot Rosewater, che ha finanziato una spedizione per cercare di raggiungerlo. Alla guida della sua nave spaziale, a forma di gabbia per canarini con lo sportello aperto, c’è lo scrittore Kurt Vonnegut. Questo è un estratto dell’intervista a Vonnegut, partito il giorno 11 aprie del 2007, sotto i migliori auspici:

D: Signor Vonnegut, non crede che la Terra le mancherà?
R: No. Se qualche anno fa mi avessero detto che il mio Paese sarebbe stato governato da tre tizi chiamati Bush, Dick e Colon, avrei provocato un cronosisma e convinto i miei avi a rimanersene in Germania.
D: E che ci dice della sua famiglia? Come farà senza di loro?
R: Sono robusti di cosituzione e imparentati con dei dottori. Se la caveranno.
D: Qual è la prima cosa che chiederà a un Tralfamadoriano, ammesso che ne troverà uno?
R: Mio padre era talmente distratto che una volta lasciò dieci centesimi di mancia a mia madre, che stava sparecchiando la tavola dopo la colazione. Ecco: vorrei avere quella leggerezza, quella capacità di amare i piccoli gesti folli e inutili. E il dono di saper scrivere come Kilgore Trout.
D: Le manca?
R: Perché... a lei no?

Ci manchi, Kilgore.
A pagina 32 di “Tope Spalancate”, leggiamo l’inizio del suo ultimo racconto. Si intitola: Fare l’amore a Tralfamadore

“Tralfamadore ha due soli e due tramonti. Quindi, ogni abitante gode della doppia dose di romanticismo genetico. Due balli della scuola, due primi baci. Doppia fatica e doppia ricompensa. L’amore, a Tralfamadore, è studiato a scuola nella doppia ora di Educazione Sessuale. E gli scienziati l’hanno esaminato a lungo, riuscendo a scoprire che è composto da***”

A questo punto, il giornale “Tope Spalancate” presenta un difetto nella composizione linotipistica e offre agli occhi del lettore una autentica Topa Spalancata, in infinite tonalità di rosa.

martedì 10 aprile 2007

Yuppiaieee, Singer!





Oscar è un bambino di dieci anni. Normale.
Piange per ogni cazzata, ha paura del buio, si infila le mani nel naso con la convinzione di un egittologo davanti alla tomba di Tuthankamon: lì dentro qualcosa c’è.
Sua madre Amelia è una ex-modista, diventata portiera di un palazzo di sette scale, otto piani e poco amore. Totale abitanti del palazzo: almeno cento più del paese di Pontebosio, da dove viene lei.
Il padre di Oscar, un sosia di Ernesto Calindri giovane, è stato dato per disperso dopo la guerra vinta dalle Forze Divorziste nei confronti della Falange della Famiglia Unita.
La sua figura paterna di riferimento è uno zio macellaio di nome Aldo, con un dito di meno e un sorriso impreziosito da due capsule d’oro di Bologna. Meglio di niente, direte voi. Meglio di niente, dice anche Oscar, che è abituato ad accontentarsi con poco. Per esempio, indossa i vestiti dismessi da qualcun altro, anche se l’odore del qualcun altro non va via con Bio Presto, checché ne dica l’Uomo in Ammollo. E gli vanno anche grandi, quei vestiti, ma lui diventerà un ragazzone, le gambe da Garrincha si raddrizzeranno e tutto andrà a posto.
Perché Oscar è Zorro.
Niente a che vedere col carnevale.
Oscar è Zorro dentro.
Raddrizza torti scolastici e salva donzelle di nove anni assediate dalla noia, facendo evoluzioni degne di Errol Flynn. Che non è morto e gioca a dadi con Elvis in un’isola lontana.
Amelia, nonostante il pentitismo, rimane una modista di valore e gli cuce ogni anno la divisa d’ordinanza: mantello nero con la fodera rossa, pantaloni neri, camicia bianca con vezzosi svolazzi falpalà, baffi neri fatti col carboncino. Ecco il problema, i baffi.
Un giorno, Oscar avrà i baffi veri, autoctoni, spioventi come i cross di Garrincha. E quel giorno sarà Zorro, dentro e fuori.
Nel frattempo, si accontenta di poco. E la Singer che sferraglia diseguale in sottofondo è un cavallo d’argento, che vale cinquecento.

martedì 3 aprile 2007

Evita lo specchio, Chinaski




Calzoni puliti, canottiera fresca di bucato e sei un signore.
Una poesia in testa, un pranzo frugale e frugato, un cuore malandato, ma che regge fino a sera. E sei a posto.
Guardami le mani: ho qualche piccolo problema di circolazione e di tremore.
Per il resto, solo il callo dello scrittore.
Avevo un amico e un gallo e ho fatto a cambio con mezzo litro di rosso scadente.
Ho amato una sola donna decente. Una per volta, come si addice a un gentiluomo e a chi non ce la fa a inventarsi cazzate sugli appuntamenti.
Ho scritto un poema immortale su carta di giornale, ho scommesso sul cavallo vincente della corsa precedente. Ho sbagliato binario, ma non sono morto. All’università, ho letto la mia opera omnia in un quarto d’ora a un pubblico che era lì per stringere la mano a uno che ha visto Bob Dylan in televisione.
In tasca ho mezzo dollaro bucato, per guardarci attraverso. Mai stato molto esigente, in fatto di panorami. Bastava che si muovessero anche da fermi.
Nell’altra tasca, il biglietto di una corriera che non ho mai preso, perché soffro il mal d’auto e vomito nelle custodie dei computer portatili.
Sono l’anima delle feste a cui non mi hanno invitato e quello giusto da prendere per il fondo dei calzoni per un volo planato. Ho scarpe da clown e naso altrettanto rosso. Ho saltato il fosso dei quarant’anni con in mano un mazzo di fiori di plastica. Non ho scritto io la Svastica sul sole, perché mi mancavano un milione di parole.
Il mio pisello è un generoso uncino, un soldato piccolino che diventa un gigante davanti a un rossetto sbavato.
Ragazze giovani fanno a gare per infilarsi nel mio letto. Io le aspetto anche il giorno dopo, ma non sopportano le mie ginocchia valghe, la camminata da vecchio, la psoriasi da stress, le menate su mio padre, il filo spinato che ho al posto del cuore. Io ce la faccio ancora a superare tutto, col mio metodo infallibile: evita lo specchio, Chinaski. È questo il segreto. E l’altro è non scommettere mai su un cavallo che l’ha appena smollata.

giovedì 29 marzo 2007

Quando eravamo Re




Addio, Babe. Addio, dolce ammaestratore di cravatte.
Quando ballavi, avevi il passo leggero degli obesi professionisti.
Io ti venivo dietro, facendo facce e simulando stramberie.
Ma sapevo che loro guardavano te, sperando che potessi cadere.
Tu eri quello grosso e goffo, io il segaligno poetico.
- Non moriremo mai - mi hai detto un giorno.
- Siamo già morti - ti ho risposto io.
E avevamo ragione tutti e due.
La discesa è un soffio di vento che legge il giornale del giorno prima, è un solitario sul letto d’ospedale. Comincia di notte, alla prima insonnia non cercata, con la prima donna pagata per fare cose che avevamo gratis quando eravamo Re.
Sopravviverti è doloroso quanto l’avvento del sonoro.
Ti ricordi di quando facevi il cattivo per via del peso? Cinque dollari a settimana e due dollari in più per ogni libbra che mettevi su. Cellulite per celluloide. Cellulosa verde per celibato a perdere. Abbiamo sposato il lavoro, amato donne sbagliate, ceduto l’anima per un tempo comico. Torte in faccia a te, amico mio.
Torte in faccia a te.
Ci hanno lanciato e mai ripreso, scordato e riesumato. Charlie aveva genio da vendere, Buster aveva il fisico da rompicollo, Harold aveva orologi a cui appendersi. Noi, invece, facevamo ridere. E basta. Incantavamo i bambini, concedevamo tempo agli adulti. Le ragazze sussultavano, culi di borotalco e sguardi setosi. Ai vecchi rimbalzavano ossa e denti, mentre le vesciche si mettevano a perdere come un cavallo drogato.
Guardo gli asini che volano nel ciel.
Ma tu non ci sei.
Odore di pioggia, fuori e dentro me.
Ma le papere sulle nuvole si divertono a fare i cigni nel ruscel.
Io non mi diverto più da un sacco di tempo.
Addio, Babe.
Addio, maledetto amico mio, debole di cuore e forte di punto vita.
Tuo Stan

Ah, un’ultima cosa...
Ticchete ticche ticchete ticche ticchete… sento che è guarito il cuor dall'estasi d'amor..
Guarito o guasto, non fa differenza.

domenica 25 marzo 2007

Neunundneunzig Luftballons




La donna barbuta, mai piaciuta.
E ha una fidanzata polacca che ha nostalgia di una terra cattiva.
La donna cannone ha buttato il suo enorme cuore tra le stelle.
E se la tromba il trapezista di riserva.
La giocoliera ha mani troppo veloci e sorrisi troppo tirati.
Di birilli e palle ne tira in quantità, ma sceglie estranei con la vita stretta.
La bigliettaia, al limite, dà il resto di cinquanta, ma sempre di soldi si parla.
E mai d’amore.
La domatrice usa la frusta anche nell’intimità.
E mette sempre una sedia tra sé e il cuore.
Io vendo palloncini al Circo Osvaldo. Il più grande spettacolo del mondo.
Una tenda da smontare e rimontare, sempre nella stessa città, sparpagliata in tutto il mondo. Stesse periferie, stesso furgone col megafono, stessa segatura. E piove, il giorno prima e il giorno dopo. Io conosco gli orchestranti, ho fatto il bagno nel golfo mistico di una marcetta austriaca. Aiuto chi ha bisogno, perché ho bisogno io. Ho camminato sul filo, perso qualche chilo, sollevato l’uomo più forte del mondo e i suoi pesi di cartone. Ho adottato un leoncino e gli ho insegnato a rotolarsi sulla schiena. Ho cucito le tasche del mago, piene di assi spaiati. Ho messo il cerone sul viso e ho fatto piangere un bambino, perché si vedeva da lontano che ero un clown senza speranza. Quando vendo i palloncini, invece, sono il re del circo. Fischietto Nino Rota, ammicco alle mamme e tengo in vista i bicipiti, come se quei palloncini pesassero quanto un tram chiamato desiderio. Di notte, alla luce fioca di un trasformatore, mi esibisco anch’io in un numero senza rete. Scrivo poesie d’amore, vero fenomeno da baraccone. E il giorno dopo le strappo, perché il sentimento vero è difficile da spiegare a una donna che non c’è. La mia poesia più bella la ricordo a memoria:

La vita è strana
So dire palloncino
In sette lingue
Ciò mi distingue
Da quel barboncino
Col cappotto di lana.

Figuratevi le altre. Da Nino Rota, passo a Nena. Neunundneunzig Luftballons. E il circo è un arcobaleno tra la terra e il cielo.