
Piove. E il governo è ladro, si sa.
Uno bravissimo ha scritto della pioggia e delle macchie di leopardo che si formano sull’asfalto.
Uno bravo ha fatto piovere per un intero film.
Io per oggi sono a posto, rassettato alla grande e con addosso un cappotto dismesso da un vero signore.
Una donna accelera sui tacchi alti, ballerina sul filo di un marciapiede milanese.
È bella, soprattutto perché è lontana e indifesa. Un ragazzino sorride e si toglie il cappello e la pioggia lo bagna, democratica e sporca come una coperta complice alla festa delle medie.
Un pony express si ripara in galleria e bestemmia con convinzione.
Io guardo le macchine e immagino un killer di Scerbanenco, mosso da ragioni personali ignote ai maniaci di Ellroy, impegnato a seguire una vittima ignara.
Ero professore di Letterature Comparate all’università. Ero padre e marito, amico e passante, automobilista e animale da weekend.
Adesso ho fatto carriera: sono l’uomo invisibile.
Sono un homeless, parola che suona come una frittata riuscita male. E forse lo è.
Sono un barbone, anche se mi rado ogni giorno nel bar di quel mio amico.
Non uso più i nomi, per paura di sciuparli, non uso più le frasi lunghe, per il terrore di perdere l’equilibrio tra i congiuntivi, pericolosi serpenti quando hai pochi denti in bocca.
Uno bravissimo ha detto che adesso sono libero dalle convenzioni, ma questa non è Parigi negli anni trenta e io non so scrivere qualcosa in grado di sopravvivermi.
Sorrido. Penso che l’inverno sia solo un errore di trascrittura in un copione di eterne primavere. Si tratta di fiducia posticcia, di avanzi di salsiccia raccattati in un cestino. Prendo a morsi la vita buttata per terra da qualcun altro, sopravvivo come una tenia e so dare altrettanto fastidio agli occhi di chi mi guarda. E allora, convinto che si tratti di una commedia risibile, mi tolgo le bende e sparisco. L’ho già detto, sono l’uomo invisibile.