Racconta!
Sì. Eravamo io, Mastro Lindo e Pisolo. Una festa da imbucati, ai Parioli.
Dopo mezz’ora di aranciata amara e biscotti Togo, inquadro una tipa carina.
Mora, capelli a caschetto, tipo Sophie Marceau, ma più porca. Mi avvcino e le chiedo: Balli?
E lei mi fa: Co’ chi?
Davvero?
Sì. C’ero solo io. Co’ chi voleva ballà?
E tu? Ci seri rimasto male?
No. Le ho sorriso e le ho detto: Rappresento un ballerino, attore del cinema, playboy, superdotato, simpatico e istruito. Il mio capo mi ha mandato a questa festa di diciottanni in esplorazione.
E lei?
Ha riso. Ha aperto le braccia e abbiamo ballato.
Troppo forte, Valterino!
Già. Beccati la successione dei lenti: How Deep is your love, I Cant’t go for that, Father and son, Disco inferno...
Ma Disco inferno è uno svelto!
Sì, ma ormai eravamo in un mondo a parte e ballavamo abbracciatissimi. Mi sono avvicinato per parlarle in un orecchio, la musica era alta. Lei ha voltato la testa e ci siamo sfiorati le labbra.
E poi?
E poi, Mastro Lindo ha vomitato sul tappeto persiano del padrone di casa e Pisolo è partito di capoccia a uno che l’aveva presa male. Una Cambogia.
E tu?
Io mi sono inchinato davanti alla mia Sophie Marceau come Zorro dopo che ha salvato una donzella in pericolo. Ho recuperato gli amichetti e siamo andati via.
E lei?
La ribecco, sicuro.
Detto questo, Valterino si accende una Ms, sbuffa in faccia alla vita e mette su un sorriso da Campioni del mondo, Campion del Mondo, Campioni del Mondo!
Era il 1982. Rossi, Tardelli, Altobelli. Non ci prendono più.
Adesso, Mastro Lindo fa il maestro elementare: un metro e ottanta per centotrenta chili di bontà. Ha sposato la maestra della classe accanto e hanno un figlio di nome Patrizio.
Pisolo è ferroviere, gli son sempre piaciuti i treni. Single.
Valterino, lui, ha messo su un pub e ogni sera da dietro al bancone cerca ancora la sua Sophie Marceau. Ha una moglie, a casa, che somiglia a... quell’attrice che ha fatto quel film. Ma non è la stessa cosa...
domenica 25 febbraio 2007
venerdì 23 febbraio 2007
Cuori da bar
Il bar sotto casa cambia gestione molto spesso. Appena Er Provvisorio si affeziona a una barista, quella sbatte gli occhioni pieni di rimmel e gli dice:
- Non ce la faccio più co’ ‘sta vita. Mi alzo la mattina alle sei e mezzo e non ci arrivo a fine mese. Sai che nuova c’è? Mi sposo, vado a vivere al paese. Mi sveglio tardi la mattina, do da mangiare alle galline e penso un po’ a me stessa.
Er Provvisorio, che di galline se ne intende, sa che la barista dovrà svegliarsi ancora prima delle sei e mezzo per dar da mangiare a quelle bestiacce.
Er Provvisorio, che conosce bene i paesi, sa che la ragazza avvizzirà in cinque anni, che le spunterà la pappagorgia da Silvana Pampanini, la panzetta da anziana incontinente. E che si riempirà di smagliature.
- Ma te ce l’hai un nome? - chiede la barista, ciucciando una Big Babol color lampone.
- Perché? Er Provvisorio non ti piace?
- Mi fa ridere. Ma non so se mi piace.
Allora lui sgrana gli occhioni azzurri, sorride e abbassa la testa. Tra i capelli rasati a uno dalla macchinetta apposita, spunta fuori una cicatrice vermiforme, leggermente inquietante, ma che fa tanto uomo vissuto.
- Vado forte con la moto e non mi fermo agli incroci.
- Non ti fermi agli incroci?
- Guardo se arriva qualcuno attraverso le vetrine d’angolo. O mi regolo con lo sguardo dei pedoni, con gli stop rossi delle macchine. Per questo mi chiamano Er Provvisorio. Secondo i miei amici, oggi ci sto. E domani...
- E se una vetrina è sporca? Se un pedone pensa ai cazzi suoi? Se uno ha la macchina con gli stop rotti?
Domande prevedibili. Parte integrante del monologo. Er Provvisorio china di nuovo la testa e indica la cicatrice.
- Cado. Intruppo. Mi faccio male. Rompo la moto.
- Ma non la smetti, vero?
- No. Ogni uomo ha un destino.
Sorriso a denti stretti, da Settimana Enigmistica. Adesso arriva il pezzo forte:
- Io morirò nel mio letto, più vecchio di quanto potrò sopportare. Non sono più provvisorio di chiunque altro.
A questo punto, come da copione, la barista sorride, apre la bocca e la Big Babol è il frutto del peccato originale.
Le bocche sono vicinissime. Lei sa di sostanze chimiche proibite, lui è l’uomo del mistero, quello che incontri una volta e che devi baciare per forza, con la lingua a mulinello. Ma il bacio non arriva.
- Che fai?, chiede lei.
- Sociologia... risponde Er Provvisorio
La bocca della barista si chiude. L’attimo magico è passato, esploso come un palloncino fatto con la Big Babol. Ma uno di quei palloncini interni, rumorosi aborti che non concedono nulla allo spettacolo.
Er Provvisorio si gratta la cicatrice, saluta la barista con due dita che sfiorano la fronte, come un cowboy che va incontro alla fine del film. Poi esce, inforca la moto e parte. All’incrocio, rallenta, guarda a destra e a sinistra, mette la freccia e corre piano incontro al destino.
- Non ce la faccio più co’ ‘sta vita. Mi alzo la mattina alle sei e mezzo e non ci arrivo a fine mese. Sai che nuova c’è? Mi sposo, vado a vivere al paese. Mi sveglio tardi la mattina, do da mangiare alle galline e penso un po’ a me stessa.
Er Provvisorio, che di galline se ne intende, sa che la barista dovrà svegliarsi ancora prima delle sei e mezzo per dar da mangiare a quelle bestiacce.
Er Provvisorio, che conosce bene i paesi, sa che la ragazza avvizzirà in cinque anni, che le spunterà la pappagorgia da Silvana Pampanini, la panzetta da anziana incontinente. E che si riempirà di smagliature.
- Ma te ce l’hai un nome? - chiede la barista, ciucciando una Big Babol color lampone.
- Perché? Er Provvisorio non ti piace?
- Mi fa ridere. Ma non so se mi piace.
Allora lui sgrana gli occhioni azzurri, sorride e abbassa la testa. Tra i capelli rasati a uno dalla macchinetta apposita, spunta fuori una cicatrice vermiforme, leggermente inquietante, ma che fa tanto uomo vissuto.
- Vado forte con la moto e non mi fermo agli incroci.
- Non ti fermi agli incroci?
- Guardo se arriva qualcuno attraverso le vetrine d’angolo. O mi regolo con lo sguardo dei pedoni, con gli stop rossi delle macchine. Per questo mi chiamano Er Provvisorio. Secondo i miei amici, oggi ci sto. E domani...
- E se una vetrina è sporca? Se un pedone pensa ai cazzi suoi? Se uno ha la macchina con gli stop rotti?
Domande prevedibili. Parte integrante del monologo. Er Provvisorio china di nuovo la testa e indica la cicatrice.
- Cado. Intruppo. Mi faccio male. Rompo la moto.
- Ma non la smetti, vero?
- No. Ogni uomo ha un destino.
Sorriso a denti stretti, da Settimana Enigmistica. Adesso arriva il pezzo forte:
- Io morirò nel mio letto, più vecchio di quanto potrò sopportare. Non sono più provvisorio di chiunque altro.
A questo punto, come da copione, la barista sorride, apre la bocca e la Big Babol è il frutto del peccato originale.
Le bocche sono vicinissime. Lei sa di sostanze chimiche proibite, lui è l’uomo del mistero, quello che incontri una volta e che devi baciare per forza, con la lingua a mulinello. Ma il bacio non arriva.
- Che fai?, chiede lei.
- Sociologia... risponde Er Provvisorio
La bocca della barista si chiude. L’attimo magico è passato, esploso come un palloncino fatto con la Big Babol. Ma uno di quei palloncini interni, rumorosi aborti che non concedono nulla allo spettacolo.
Er Provvisorio si gratta la cicatrice, saluta la barista con due dita che sfiorano la fronte, come un cowboy che va incontro alla fine del film. Poi esce, inforca la moto e parte. All’incrocio, rallenta, guarda a destra e a sinistra, mette la freccia e corre piano incontro al destino.
lunedì 19 febbraio 2007
L'importanza di essere Franco
La ragazza era bella come Io se fossi Dio, versione non censurata.
E altrettanto incazzata.
Vent’anni e sei mesi, vergine. E non stiamo parlando di segni zodiacali.
Lui era un franco tiratore da baretto, bravo a impallinare le acrobazie grammaticali di dieci rimandati cronici.
Lei lo vide mentre era intenta a sistemarsi i capelli: gli gettò uno guardo-non sguardo di quelli che fanno danni da fuoco amico.
Lui recepì che qualcosa era successo alla periferia dell’impero
Qualcosa contro cui era inutile combattere.
Poco da dirsi, tanto da farsi.
Lei capì che la resa era vicina e lo lasciò procedere, anche se le sue mani erano più sgraziate di quello che si aspettava.
Lui disse vengo.
Lei disse sì.
A parte la qualità del dialogo, la maratona del sesso fu roba da centometristi, generazionalmente afflitti dalla piaga del doping.
Tornava a casa, la ragazza, con un sorriso poco felice: niente violini e molto Pic indolor. Ma un pensiero in meno.
Rimaneva a casa, il franco tiratore: sigaretta, occhi di brace, a sognare un altro incontro più capace, più sciolto.
Ma intanto questo si poteva raccontare.
Roba da Gigi Rizzi de Noantri, dolce vita tra le vetrine di Piazza dei Re di Roma.
Che poi, a pensarci bene, i Re di Roma erano: Romolo, Remo, Anco Marcio, Servo Sterzo e Paulo Roberto Farcao.
Il franco tiratore ripensò a quando era piccolo, due anni prima, e appendeva le figurine dei laziali a testa in giù. Rispetto a quei giorni, era un adulto fatto e finito, un James Brown nel suo mondo per soli uomini.
La ragazza, nel buio della cameretta, accese la lampada di Stark e seguì la vanità delle bolle di luce. Suo padre le sorrise con l’allegria di un naufrago, sua madre le disse che aveva chiamato uno.
Un certo Franco.
E altrettanto incazzata.
Vent’anni e sei mesi, vergine. E non stiamo parlando di segni zodiacali.
Lui era un franco tiratore da baretto, bravo a impallinare le acrobazie grammaticali di dieci rimandati cronici.
Lei lo vide mentre era intenta a sistemarsi i capelli: gli gettò uno guardo-non sguardo di quelli che fanno danni da fuoco amico.
Lui recepì che qualcosa era successo alla periferia dell’impero
Qualcosa contro cui era inutile combattere.
Poco da dirsi, tanto da farsi.
Lei capì che la resa era vicina e lo lasciò procedere, anche se le sue mani erano più sgraziate di quello che si aspettava.
Lui disse vengo.
Lei disse sì.
A parte la qualità del dialogo, la maratona del sesso fu roba da centometristi, generazionalmente afflitti dalla piaga del doping.
Tornava a casa, la ragazza, con un sorriso poco felice: niente violini e molto Pic indolor. Ma un pensiero in meno.
Rimaneva a casa, il franco tiratore: sigaretta, occhi di brace, a sognare un altro incontro più capace, più sciolto.
Ma intanto questo si poteva raccontare.
Roba da Gigi Rizzi de Noantri, dolce vita tra le vetrine di Piazza dei Re di Roma.
Che poi, a pensarci bene, i Re di Roma erano: Romolo, Remo, Anco Marcio, Servo Sterzo e Paulo Roberto Farcao.
Il franco tiratore ripensò a quando era piccolo, due anni prima, e appendeva le figurine dei laziali a testa in giù. Rispetto a quei giorni, era un adulto fatto e finito, un James Brown nel suo mondo per soli uomini.
La ragazza, nel buio della cameretta, accese la lampada di Stark e seguì la vanità delle bolle di luce. Suo padre le sorrise con l’allegria di un naufrago, sua madre le disse che aveva chiamato uno.
Un certo Franco.
venerdì 16 febbraio 2007
Sopravvivere fa bene alla salute
Terza di faccia. Quarta di culo.
Se mi dai Pizzaballa, mi rovino: scudetto della Ternana e Cuccureddu.
La Nutella la fanno con i ragazzini africani.
La Simmenthal, con il cervello delle mucche.
Il primo lento era della Kool & The Gang.
Il primo bacio è stato una sfida a dentate con Silvia Filippini, buono da raccontare agli amici quando torni a Roma e cominci a pangere in sielenzio, perché, cazzo! la tua cameretta è piena di cose belle e di frattaglie di giochi che capisci solo tu. I soldatini senza testa, medievali come il sorriso di tua nonna. Che da giovane era bella come un’attrice, ma piccola come una bambola di porcellana. La pista Policar, quella ovale, perché gli altri modelli costano troppo. Il Subbuteo, montato su un pezzo di legno imbarcato al centro. Favoritissimo il gioco sulle fasce, alla Kevin Keagan. Perché Best forse era più forte, ma se lo ricorda tuo padre. Il flipper di plastica, che non fa tilt ma solo rumore. La pistola da cowboy, i cannoni sparanti della Mattel, un Big Jim zoppetto ma eroico. L’arco con le freccie piumate, il fucile da cecchino della Pantermatic. I walkie-talkie: Lucertola 3 a Gatto delle nevi. Ti amo, se sei tu l’angelo azzurro. Amanda Lear è un uomo, Donna Summer un computer. Ma no, esiste. È sposata con un italiano, che la mette incinta ogni tre mesi.
Terza di faccia, quarta di culo. Se conto fino a dieci e diventa verde il semaforo, mia madre guarisce. Undici va bene lo stesso. Treno e ospedale, puzzano uguale. Un tiro di Cuccureddu va più veloce di un’Alfetta verde, ma Pizzaballa lo para con una mano, mentre con l’altra saluta il pubblico. Specialmente una ragazza di vent’anni, che viene a vederlo giocare perché lui ha le gambe lunghe e forti. E perché lo ha scambiato per Cudicini, il Ragno nero. Uno del mio palazzo fa la pipì come Renato Zero. Raffaella Carrà è la donna più bella del mondo, mentre Mina fa paura, con le ciglia da Minnie e la voce minacciosa.
Gustavo Thoeni e Di Biasi non sanno parlare alla televisione. A letto dopo Carosello, a sognare Carmencite ubriache di Brancamenta. Nelle gomme di RinTinTin, non hai vinto: ritenta. Sarai più fortunato...
Specchio. Specchio infinito, te lo mando a dire per lettera. Ci sarai, tu e tre quarti del palazzo tuo. Tana libera tutti, fulmine, tre tre giù giù.
Se sono sopravvissuto a questo, non muoio più.
giovedì 15 febbraio 2007
II fumatore di sigaro (cubano)
Il fumatore di sigaro (cubano) crede nella Bibbia di Molinari.
Ha i vestiti stirati per bene, parla poco, possiede tre taglierine e sa sempre dove le ha messe.
Vive solo, al massimo con moglie insoddisfatta, non si riproduce, non offre sigari a nessuno. Anzi, no. Adesso che ci pensa, ha dei Romeo e Giulietta del 1975, secchi e col bicho. Li tira fuori per donarli al portiere del condominio che gli ha appena riparato il citofono. "Questi vengono direttamente da Cuba", aggiunge, e accentua il nome dell'isola caraibica come se vantasse una parentela di secondo grado col Che. Il portiere fa spallucce, li annusa e li mette nella tasca dei jeans. A quel punto, il fumatore di sigaro si pente di aver elargito cotanto dono e spiega tutti i principi di conservazione del prezioso articolo da fruitori esperti.
Umidità compresa tra il 65 e il 72 per cento. Temperatura, 24 gradi. Non tocccarlo, a meno che non sia strettamente necessario. Non esporre alla luce.
A quel punto, il portiere del condominio si sente inadeguato, sia esteticamente che moralmente, e confessa: sono ormai due anni e mezzo che fa sentire donna la moglie del fumatore di sigaro (cubano).
Il fumatore di sigaro (cubano) incassa il colpo con grande stile.
Il portiere del condominio si accende una Marlboro e si allontana cantando Besame Mucho.
In una serata di settembre come questa, via Tuscolana e Varadero si assomigliano come due sorelle adottate. C'è dell'affetto, certo che c'è. Ma anche del risentimento...
Ha i vestiti stirati per bene, parla poco, possiede tre taglierine e sa sempre dove le ha messe.
Vive solo, al massimo con moglie insoddisfatta, non si riproduce, non offre sigari a nessuno. Anzi, no. Adesso che ci pensa, ha dei Romeo e Giulietta del 1975, secchi e col bicho. Li tira fuori per donarli al portiere del condominio che gli ha appena riparato il citofono. "Questi vengono direttamente da Cuba", aggiunge, e accentua il nome dell'isola caraibica come se vantasse una parentela di secondo grado col Che. Il portiere fa spallucce, li annusa e li mette nella tasca dei jeans. A quel punto, il fumatore di sigaro si pente di aver elargito cotanto dono e spiega tutti i principi di conservazione del prezioso articolo da fruitori esperti.
Umidità compresa tra il 65 e il 72 per cento. Temperatura, 24 gradi. Non tocccarlo, a meno che non sia strettamente necessario. Non esporre alla luce.
A quel punto, il portiere del condominio si sente inadeguato, sia esteticamente che moralmente, e confessa: sono ormai due anni e mezzo che fa sentire donna la moglie del fumatore di sigaro (cubano).
Il fumatore di sigaro (cubano) incassa il colpo con grande stile.
Il portiere del condominio si accende una Marlboro e si allontana cantando Besame Mucho.
In una serata di settembre come questa, via Tuscolana e Varadero si assomigliano come due sorelle adottate. C'è dell'affetto, certo che c'è. Ma anche del risentimento...
martedì 13 febbraio 2007
Il fumatore di sigarette
Il fumatore di sigarette smette quando vuole.
Il fumatore di sigarette ha iniziato a 12 anni. Raccoglieva le cicche per terra, mescolava i tabacchi, blender ante-litteram con anticorpi da mutante.
Il fumatore di sigarette ha una madre ingrigita da anni di Muratti, un padre che stima le Nazionali ma che fuma - misteriosamente - le Diana Blu. I suoi genitori sono portatori insani di nebbia e di una tosse che fa lo stesso rumore delle pistole di Kevin Kostner in "Open Range".
Il fumatore di sigarette ha una nonna che ha imparato a fumare quando gli americani hanno liberato l'Italia. Lanciavano cioccolata e sigarette dalle loro Jeep, belli come sanno essere soltanto i vincitori. Per fortuna, all'epoca la nonna ha preso al volo le sigarette, altrimenti sarebbe stata stroncata in poco tempo dal diabete.
Il fumatore di sigarette compra due pacchetti da dieci, perché così fuma di meno.
Il fumatore di sigarette non smette quando vuole: lui interrompe. Ha provato col cerotto, con la sigaretta di legno, con l'ipnosi, con la povertà, con la frequentazione di amici che non fumano. Risultato: ha rollato bustine di the dentro ai suddetti cerotti, si è fumato le sigarette di legno. Da solo.
Il fumatore di sigarette, quando rimane senza, le scrocca con un sorriso irresistibile. In realtà, si tratta del ghigno della scimmia. Provate a chiederne una a lui. Non ve la darà, non può darvela, perché è l'ultima.
Il fumatore di sigarette le compra al Duty-Free dell'areoporto, a San Marino, in Vaticano. Illuso di aver risparmiato, raddoppia il ritmo della fumata e dimezza le proprie possibilità di poter affrontare ancora un viaggio per incrementare le scorte nella cambusa della sua mente.
Perché il fumatore di sigarette non è cattivo. E' soltanto più saggio e più smagato sulla vita, perché quel giallo sulle dita e sui denti sta a significare che ha azzannato alla gola l'Eldorado della felicità, almeno per un istante, quell'attimo in cui, di notte, dà l'ultima boccata e la cicca si fa brace, capace di ardere. Da lì all'eternità...
lunedì 12 febbraio 2007
Il fumatore di pipa
Il fumatore di pipa è un solitario, ma questo non fa di lui un asociale. Vorrebbe parlarti per ore del Latakia siriano, del pigino che si è perso al concerto dei Genesis, di quella bent rodesiana che qualcuno gli ha sottratto con destrezza. Ma poi si adegua e ti spiega che Cassano non sarà mai un fuoriclasse completo, gli manca la testa.
Il fumatore di pipa ha tasche sformate, polverose come le miniere del Galles.
Il fumatore di pipa tossisce col fischio e sputa grumi di materiale terroso.
Il fumatore di pipa adora le vestaglie a quadri rossi e verdi, il camino, il gatto europeo sulle gambe, i libri fantasy e i quelli di Sherlock Holmes. Erba pipa e soluzione al 7%, of course.
Il fumatore di pipa abiterebbe nel Decumano Ovest, piuttosto che nel cuore di una metropoli che non lo capisce.
Il fumatore di pipa ha una racchetta da tennis di legno e si strugge al ricordo di un doppio misto, durante il quale spiava le mutandine della sua compagna occasionale.
Il fumatore di pipa ama i cappelli e gli ombrelli, ma ne perde in quantità industriale.
Il fumatore di pipa piace alle signore over 40, quelle con l’esaurimento estetico, però.
Il fumatore di pipa è un amante focoso, soprattutto quando fa l’amore con se stesso.
E il suo cuore è una brace tiepida, da campione di lentofumo, un posto dove entra il mare a mezzanotte e all’alba escono fiumi d’amore. Ha una foto, nel portafoglio, che lo ritrae insieme a un artigiano delle Marche. E dietro la foto, un numero di cellulare, di chissà chi.
Il fumatore di pipa, un giorno, farà quel numero. E sarà felice...
Il fumatore di pipa ha tasche sformate, polverose come le miniere del Galles.
Il fumatore di pipa tossisce col fischio e sputa grumi di materiale terroso.
Il fumatore di pipa adora le vestaglie a quadri rossi e verdi, il camino, il gatto europeo sulle gambe, i libri fantasy e i quelli di Sherlock Holmes. Erba pipa e soluzione al 7%, of course.
Il fumatore di pipa abiterebbe nel Decumano Ovest, piuttosto che nel cuore di una metropoli che non lo capisce.
Il fumatore di pipa ha una racchetta da tennis di legno e si strugge al ricordo di un doppio misto, durante il quale spiava le mutandine della sua compagna occasionale.
Il fumatore di pipa ama i cappelli e gli ombrelli, ma ne perde in quantità industriale.
Il fumatore di pipa piace alle signore over 40, quelle con l’esaurimento estetico, però.
Il fumatore di pipa è un amante focoso, soprattutto quando fa l’amore con se stesso.
E il suo cuore è una brace tiepida, da campione di lentofumo, un posto dove entra il mare a mezzanotte e all’alba escono fiumi d’amore. Ha una foto, nel portafoglio, che lo ritrae insieme a un artigiano delle Marche. E dietro la foto, un numero di cellulare, di chissà chi.
Il fumatore di pipa, un giorno, farà quel numero. E sarà felice...
domenica 11 febbraio 2007
Il mestiere del capitano
Una notte orfana di stelle. Da prua, l’isola è un polipo nero che si aggrappa alla coperta dell’oscurità con la rabbia feroce di chi ha freddo da sempre. Io cammino sul ponte della nave, perché questo è il mio ruolo, il sonno un lusso che non posso permettermi, la veglia una compagna che ho imparato ad amare. L’acqua sotto le fiancate della nave si increspa al passaggio del corpo possente del mio nemico. Aguglie e pesci pilota si insinuano tra la spuma e mi guardano con occhi aguzzi, capocchie di spillo che si chiudono quando ramazzano fondali impensabili. Io odio l’acqua. E l’acqua odia me. Un sorso di rum per lavare via la stanchezza e sangue a fiumi per pulire la tolda. Questo io chiedo, all’oste che dirige il bar dell’inferno. E questo ricevo, mescolato a ghigni feroci della ciurma e a sospiri di donne che ho strappato al calore delle loro case. Contesse bambine, matrone imbellettate, donnacce e donnine. Il mio cuore è la loro prigione. E da lì non si scappa, perché la vendetta ha messo sbarre troppo solide al tugurio angusto che mi batte nel petto. Capitan Uncino, mi chiamano. E quello è il mio nome, da sempre e per sempre. Perché un nome tanto fiero è una strada dritta di solide pietre, impossibile non percorrerla tutta. Una brezza gentile mi porta all’orecchio il rumore che temo e aspetto come un’estrema unzione. La mia pelle organizza una babele di brividi, la schiena si arcua, in bocca arriva la bassa marea. Tic tac... tic tac... Peter Pan è niente, al confronto. La sua spada piccola e veloce potrebbe entrare tra le mie costole e mettere un punto al noioso monologo dell’esistenza. In un attimo, o dopo pochi istanti di feroce agonia. Ma almeno arriverebbe il riposo, l’agognata scampagnata verso lidi sconosciuti e immensi, verso mari immoti e gole inesplorate. E invece niente. Si protrae la condanna. Tic tac... tic tac... Il coccodrillo ha ingoiato la sveglia, goffo metronomo di una favola stupida. Il coccodrillo ha ingoiato la mia mano. E gli è piaciuta. Mi segue come un boia che ha perso la rotta del patibolo ma non le tracce del condannato a morte. Mi segue come il domani, che quando arriva si trasforma nell’inutile breviario che gli uomini chiamano oggi. E domani è ancora di là da venire. Scendo le scale e vado sotto coperta, silenzioso come un pensiero inespresso. Spugna dorme, perché è un’anima semplice, un figurante alcolico nella farsa della mia vita. Russa e sospira, impossibile seguire il ritmo del suo aritmico incubo, fatto di sirene e di indiani, di orfani implacabili e di fatine volanti. È la cosa più vicina a un amico che abbia mai avuto. E questo pensiero non mi fa stare bene. Prendo le mie pistole, cariche e lucidate, e torno sul ponte. Per calare in acqua la scialuppa impiego un tempo infinito. Provatevi voi, con una mano sola! Poi salgo sul piccolo legno, un guscio di noce che balla sulla musica delle correnti. Il coccodrillo si avvicina e mi guarda. Non è intelligente, l’ho già detto, ma in qualche modo capisce che è la resa dei conti. O lui o io, oppure entrambi. Mentre apre la bocca, io prendo la mira. Tic tac... tic tac... Il suo fiato è osceno. Niente del genere dovrebbe esistere, se un qualche dio avesse a cuore il destino di questo suo povero figlio mutilato. Niente del genere dovrebbe insozzare il sudario di questa notte senza stelle. Poi chiude la bocca, senza rumore di zanne. Se ne va, accompagnato dal ticchettio che ho imparato a sincronizzare con i battiti del mio cuore. E io non gli sparo. Adesso so qual è il mestiere del capitano. Sopravvivere alla meglio, nonostante tutto. Perché c’è una ciurma di balordi da portare a caccia di nuovi tesori e all’inseguimento di nuovi fantasmi. E questo, dovete darmene atto, io lo so fare bene. Esce la luna dal sipario delle nubi, in attesa di un applauso che non c’è.
venerdì 9 febbraio 2007
Il fumatore di sigaro (toscano)
Il fumatore di sigaro (toscano) crede nella fatica e il suo motto preferito è: "la terra è bassa".
Anche sua moglie, però, in quanto a bassezza non scherza affatto.
Veste casual, sportivo, a vanvera. Puzza di legna di camino, di muffa e di schedine del totip precompilate. Offre mozziconi di Garibaldi ammezzati a vecchi maestri tabagisti, con pochi denti gialli incastonati dentro bocche da avannotto. E' sospettoso nei confronti del Moro, odia il tosbano e fa collezione di fascette di extravecchio. La moglie - quella bassa - gliele butta di continuo, insensibile a una collezione che non possa essere rivenduta in caso di morte improvvisa del consorte. Il fumatore di sigaro (toscano) ha un'amante che lo trova molto maschio e che gli sussurra oscenità irripetibili. Lui, però, dotato di memoria elefantiaca, le ripete al bar della piazzetta, davanti a un bicchiere di cedrata. E lì, tra le risate genuine degli amici di sempre, tira fuori un avanzo di Riserva e lo accende. Strizza gli occhi, accentua al massimo le rughe di espressione come Gustavo Zito alla finale di carambola all'italiana. E si chiede perchécazzo fuma roba così forte. Poi partono le prime volute di fumo azzurro, qualcuno al juke-box mette we are the champions, my friend. E volano in cielo soltanto sogni buoni, di tette non rifatte e della Spal in Coppa dei Campioni.
Anche sua moglie, però, in quanto a bassezza non scherza affatto.
Veste casual, sportivo, a vanvera. Puzza di legna di camino, di muffa e di schedine del totip precompilate. Offre mozziconi di Garibaldi ammezzati a vecchi maestri tabagisti, con pochi denti gialli incastonati dentro bocche da avannotto. E' sospettoso nei confronti del Moro, odia il tosbano e fa collezione di fascette di extravecchio. La moglie - quella bassa - gliele butta di continuo, insensibile a una collezione che non possa essere rivenduta in caso di morte improvvisa del consorte. Il fumatore di sigaro (toscano) ha un'amante che lo trova molto maschio e che gli sussurra oscenità irripetibili. Lui, però, dotato di memoria elefantiaca, le ripete al bar della piazzetta, davanti a un bicchiere di cedrata. E lì, tra le risate genuine degli amici di sempre, tira fuori un avanzo di Riserva e lo accende. Strizza gli occhi, accentua al massimo le rughe di espressione come Gustavo Zito alla finale di carambola all'italiana. E si chiede perchécazzo fuma roba così forte. Poi partono le prime volute di fumo azzurro, qualcuno al juke-box mette we are the champions, my friend. E volano in cielo soltanto sogni buoni, di tette non rifatte e della Spal in Coppa dei Campioni.
educazione sentimentale del giovin signore
È arrivato. Non so come, ma ce l'abbiamo in casa. Il portiere ha fatto il suo lavoro, mia madre l'ha ringraziato con un caffè e una considerazione sull'estate di San Martino. Mio padre, invece, è al lavoro, e quando ritorna è troppo stanco per accorgersi che Lui è arrivato. Eccolo qua, appoggiato indolentemente sulla poltrona, a riposar la costola dal lungo viaggio. È il catalogo di Postal Market. A dodici anni, altro non so sulle donne. Dopo pagine di pigiami e camicie, di scarpe di vernice, cinque o sei dame sognanti sfoggiano autoreggenti e trasparenze di pizzo. Ed è subito sera. I miei dormono il sonno dei giusti. La mia mano sfoglia il catalogo, mentre sua sorella cerca di aiutare un pezzetto di piombo a sollevarsi in volo. Martina, la mia compagna di banco, non è bella come questa legione di modelle. Ma sa sorridermi bene. La mia mente sovrappone, taglia e cuce. Gli occhi chiusi non hanno bisogno di nessun catalogo, ma sono contento che ci sono. Postal Market e Martina, intendo. Due sogni incrociati, due film bagnati che mi portano felice a domani mattina, quando mi sveglierò confuso e - forse - mezzo cieco.
giovedì 8 febbraio 2007
Vetusto ma mai domo
erano le donne over 40
cui toccavamo il culo
noi mezzeseghe di 14 anni.
Sulle ginocchia sbucciate, avevamo la mappa dell’Oratorio.
Sulle facce sudate, i capelli incombevano come maltagliati in un piatto di fagioli.
Nelle cartelle di Upim, una penna bicolore, una matita e una gomma da cancellare urlavano preoccupate per l’assenza del maschio di casa: il temperino. Un esercito di figli unici, di genitori parsimoniosi: questo eravamo.
Chinaglia e Agostino, quando azzeccavamo il dribbling della vita o la punizione-bomba.
Palla, porta e scarto, quando non attraversavamo il miglior periodo di forma.
Sopra di noi, un cielo più azzurro. Tra le mani, mele più buone e pomodori da mangiare a morsi. E rosicchiavamo la busta del latte, per berne sugosi acconti, con la voce di padri finti-severi che urlavano ordini da KGB: porta il resto e cammina muro muro.
E poi c’era il fornaio che faceva la pizza buona, che era appena finita. E la pasticceria dai cornetti miracolosi. E il calzolaio, con le mani piste e un odore che non so dire a farla da padrone per tutta la bottega. E le mani di mio padre, nicotina e fatica, pesanti come pietre con l’anima da farfalla, passavano tra i miei capelli per ricordarmi una cosa: il mondo è un posto bellissimo, se sai da dove guardarlo.
E mia madre sorrideva il giusto. Di più, voleva dire poca disciplina. Di meno, non sei l’amore di mamma. Il giusto mezzo, gli eterni secondi, i fregnoni capaci di piangere senza lacrime, i cocchi della maestra, la bicicletta che pesava trenta chili, un alito da Dalek e dita da flipper: questo eravamo.
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