mercoledì 29 dicembre 2010
Scusa se ti chiamo Vintage
Lei aveva scarpe da vecchia ed era vestita a caso, ma con tutta la premeditazione possibile. I suoi colori ne facevano un vessillo da contrada del palio di Siena, che Aceto sarebbe morto mille volte calpestato da tutti i cavalli del mondo per poter sfilare anche solo un guanto da quella manina deliziosa. Non cercava l’amore, la ragazza. Ma era costruita per attirarlo a sé, argano senza peso, capace di sollevare la casa di un gigante, con tutta la famiglia gigantesca seduta a tavola per il cenone di capodanno: nel menù, fagioli enormi, che altro? Ma la ragazza non aveva nessuna difesa, contro un sorriso di compiacimento. Peccato che lui non riuscisse nemmeno a sorriderle. Pigiati sulla metropolitana delle otto, con tracce di cuscino ancora sulla faccia, i due erano capitati più vicini di molti amanti, più a contatto di ballerini di tiburon, più intimi di amici di penna ai tempi del computer. Il ragazzo cercò nella memoria un’epifania più forte, un desiderio più grande e risalì con facilità fino al suo letto amniotico, fino a un sogno prenatale, fino alla caverna di Platone e ancora più indietro. Niente. Soltanto una nebbia indistinta, sollevatasi intorno al volto che un giorno avrebbe dovuto amare. Il volto di lei, sicuro. La guardò con insistenza, non poteva fare altrimenti. La ragazza vestita a caso, con miracoloso sincronismo, gli parlò. La parolina si fece giostra, la voce era il gettone, le orecchie di lui cavalluccio e macchinina.
- Scendi?
Un momento. Qui ci vuole prosa ossianica, dannunziana facilità di verso, leopardiana malinconia amorosa, ungarettiana sintesi del pensiero forte.
Poi, con la preparazione di uno studente di Lettere Moderne, fuori corso convinto, lui optò per John Keats e disse:
- L’amore è la mia religione. E potrei morire per esso.
A lei il sorriso nacque e morì in volo, come rondine che ha troppo volato. Lui si scusò e disse:
- Scendo, se scendi tu. Scendo, dovunque scendi tu. Scendo.
La fermata era Subaugusta. Non serviva a nessuno dei due. Perché l’amore è spesso un compromesso tra il sogno più ardito e la realtà più mediocre. E non è mai vantaggioso, a meno che tu non abbia studiato anche Montale:
- Essere sempre infelici, ma non troppo, è condizione sine qua non di piccole e intermittenti felicità.
Sì. E Subaugusta può essere un posto meraviglioso, se devi riconoscerti meglio. La nebbia volò via quando un coatto del posto accese una Marlboro dura. Le scarpe di lei, in un momento, divennero vintage. E lui, da studente fuori corso, si battezzò scrittore. Entrambi, da quel momento, abbracciarono con ostinato ottimismo un futuro migliore.
sabato 25 dicembre 2010
Il grande amore di Carlito Brigante
Verranno tempi duri.
Tempi da coperta di lana, che sotto ti lasci il pigiama anche quando ti vesti per uscire. Verranno inverni da era glaciale, con Sid che è un gran personaggio, ma, se sei un bradipo, hai davvero poche possibilità di portare a casa a pellaccia, sia che ti doppi Claudio Bisio o quella lenza di John Leguizamo.
Con la voce di Leguizamo, forse, il bradipo Sid ha più possibilità, perché mi viene in mente la scena in cui Benny Bianco uccide Carlito Brigante. E Carlito Brigante, lui sì, era una pellaccia.
Dicevamo dei tempi duri.
Tempi senza di lei.
La perdo e la ritrovo ogni momento, le dimostro amore e mi allontano, le offro il mondo e poi solo una mano da stringere di notte. Cerca qualcuno che non sono io. Lo troverà. Perché lo merita, perché è una delizia da pasticceria artigianale.
E io sono un goloso non autorizzato all’acquolina in bocca. Lo troverà.
E io sto preparando il cuore alla botta secca, al rumore di un cristallo che cade sul pavimento, alla gelosia, allo stordimento.
Sono ingombrante come un pacco incartato male, difficile da portare, anche se dentro – e lei lo sa bene – custodisco chincaglierie interessanti e autentiche gemme preziose, diamanti grezzi e pezzi di vetro per incantare donne indigene, specchietti e lucine, collane di denti di squalo e un biglietto per il cinema d’essai, che fanno quel film con quell’attore.
L’inverno arriva quando indossi ancora la maglietta a mezze maniche e i pantaloni leggeri. Ti avvisa, ma tu non vuoi vedere i segni. Fa buio presto, piove forte, comincia il campionato, le sale da the sono piene di coppiette, respiri ed esce un fiato denso e visibile come nebbia in val padana.
Le scrivo lettere d’amore, per fermare l’amore.
Le dedico qualunque istante, per creare nuovi istanti da dedicarle.
Sono Penelope, perché la mia attesa non è senza speranza e faccio e disfo senza averne mai abbastanza. Ma lei tenderà il suo arco per altri uomini e farà centro nei loro cuori inermi senza fatica alcuna. Ed è giusto così.
Non ho paura, mi ripeto. Sono Carlito Brigante, il mondo è mio. La pallottola vagante l’ho messa in conto, il cedimento del cuore fa parte del gioco. I punti fermi del mio mondo sono collegati all’ogiva del suo sorriso e le sue parole sono la spoletta per innescare l’esplosione finale.
Ti amo, mi dice.
Me lo godo a metà. Una metà devastante, che non conosce eguali e che è molto più di qualunque intero. Ma col resto dell’amore, con la parte consapevole della precarietà, tesso una tela leggera e una coperta pesante. Poi accarezzo il cane Argo, soffio nel corno dell’Orlando Furioso, alzo la lancia di don Chisciotte e bevo il vino degli dei. Ti amo finché ci sono. Ti amo anche quando non ci sei.
lunedì 20 dicembre 2010
La mia forza viene da lontano
Io so come ci si sente. Conosco la strada della forza e la forza della strada. Ho visto tanti andare via, qualcuno è rimasto sulla soglia, qualcun altro ha proprio salutato e punto. Mio padre ha deciso che il suo cuore era troppo grande per quei tempi sbagliati. A undici anni, non la presi bene. Credevo volesse punirmi perché avevo detto parolacce e bugie, credevo ce l'avesse con me per quella volta che ho ammazzato i pulcini che mia zia teneva nella vasca da bagno. Mia madre è rimasta, per fortuna. Non camminava, però. Non muoveva le mani. Non muoveva niente. E io credevo che fosse colpa mia, perché si è ammalata dopo il parto. E invece era un dono d'amore: la sua immobilità in cambio delle mie gambe robuste, la sua malattia in cambio di una vita speciale: la mia. Sclerosi multipla, la chiamano. Per i dottori è un campo minato di teorie, una sfida persino avvincente. Per i parenti è qualcosa che fa male, di giorno perché non vivi tu, di notte perché vorresti che vivessero loro, prendendo in prestito il tuo corpo dormiente, ma mai veramente riposato. L'ho vista diventare una pianta, ma era la mia pianta meravigliosa, un'orchidea di sentimenti purissimi, una quercia robusta e profumata, legno e foglie per scaldarmi, linfa e frutti per nutrirmi. Lo so, una quercia non dà frutti, ma avete capito il senso. Tumore al seno, lo chiamano. Perché la sclerosi non la piegava abbastanza. E i dottori si sono affannati a dirmi che dovevo essere forte. Io so come ci si sente, quando qualcuno in camice bianco ti dice le cose che sai da sempre. Ci siamo nutriti l'uno dell'altra, simbiotici come un parassita e il corpo ospite, scambiandoci di ruolo ogni momento. Io seduto, lei in perenne movimento. Scriveva poesie sulla lavagna della mente e le faceva copiare su carta a una sua amica, perché si vergognava del figlio parolaio, che magari avrei avuto da dire sulla metrica o sbuffato per i contenuti. Erano belle poesie. D'amore, perfino. Quando sono andato a trovarla, l'ultima volta, ho sentito un rumore dal corridoio della clinica. Proveniva dalla sua stanza. Un infermiere, con delicata esperienza e dovuta indifferenza, tirava su la chiusura lampo di un sacco nero. Dentro al sacco, non c'era un soldato, ma qualcuno di ben più eroico: c'era lei. Il giorno prima, aveva detto che bastava, che andava bene così, che io ero a posto, grande e grosso e realizzato, con accanto una donna che si sarebbe presa cura di me. Era vero. Ma non ero pronto. Non si è mai pronti, per certe cose. Ho urlato senza piangere. Le lacrime sono scese verso l'interno. Mi hanno protetto il cuore con un guanto di ghiaccio. Ed era giusto così. Poi ho provato a vivere da protagonista, lasciando il ricordo di lei a solleticarmi il cuore con unghie da criceto gentile. Ricordo le sue gambe gonfie, la ritenzione idrica, le pasticche inutili. Ricordo i debiti con le banche, con qualche amico affettuoso. Ricordo le volte che non sono potuto uscire la sera. Ricordo le ragazze che sono scappate, dopo averla conosciuta. Peggio per loro, lo penso davvero. Si sono perse la possibilità di crescere accanto a una grande figura del Novecento, che Freud e Picasso erano soltanto un impiccione fetente e un disegnatore scadente. Io vengo da lì. Mi sono abbeverato a quella fonte, ne ho ricavato forza da vendere. E l'ho venduta, infatti. L'ho messa nelle mie storie, travestendola col nome generico di fantasia. Ma il più delle volte, quella forza, l'ho regalata. E continuo a farlo. In cambio, spesso, ho avuto la sensazione di non essere capito e creduto. Tu non sei vero, tu non esisti, tu mi entri nella testa, tu mi stordisci il cuore. Tutto vero, per carità. Sono una bomba di umanità, lanciata contro persone inermi alla confidenza, diffidenti verso il mondo. Eppure, dopo che sono passato a un metro da loro, qualcuno ha capito. E mi ha sorriso. E mi ha detto grazie. E mi è bastato. So come ci si sente a essere il bambino speciale, il figlio della signora sulla sedia a rotelle, il ragazzino bravo a scuola senza alcuno sforzo, l'amico che capisce, l'amante che esplora un corpo ogni volta come se fosse il primo e l'ultimo. La sensibilità non è mai gratis: la si paga, la si pagherà. Ma ne vale la pena, credetemi. Sono una radio sempre accesa, un brusio di fondo di un canale sintonizzato male, ma che trasmette la musica degli angeli. Sono un telepate emozionale ed emozionante, un gatto che sa già quando verranno i tempi duri ma che non se ne va. Non ho bisogno di nessuno, per splendere, perché ho il mio serbatoio interno che va a benzina antica, quella che mia madre stipava ogni giorno, quasi fosse la mia donna, o una mia amica. Ma ho bisogno di te. Che sei nel mio mondo da sempre, che non ti stavo cercando perché ti avevo già trovata. Io so come ci si sente, ad avere paura di perdere qualcuno. Ma so pure cosa vuol dire avere un bonus d'amore da spendere al mercato della vita. Tu sei il segreto della mia forza dolce e praticamente infinita...
sabato 18 dicembre 2010
L'origine della vita interiore
Joyce aveva una casetta carina, comprata coi soldi del padre. Ma lui si alzava presto, la mattina, per scrivere pagine e pagine senza alcuna punteggiatura. Il genitore, dalla tomba, scuoteva la testa: non era quello, che a James avevano insegnato a scuola, ma in fondo era un bravo bambino. E un innovatore può anche passare per un idiota, in nome della perfezione del monologo interiore.
Gozzano da piccolo aveva una gallina di nome Cassiopea. Suo nonno lo guardava preoccupato: non era così che si costruiva il fisico e lo spirito di un medico soldato. Ma era un ragazzino minuto e gentile, capace di tacere per ore anche quando aveva molte cose da dire.
Kerouac aveva un nome per esteso che pretendeva da lui un futuro da moschettiere, da ginecologo o – almeno – da notaio. E cominciò a uscire troppo, la sera, e a tornare a casa col sorriso di chi ha fatto marachelle confondendole con la vita normale. Ma ascoltava le storie dell’Ombra alla radio, insieme a sua madre, rapito da quelle voci baritonali dall’intonazione micidiale.
A sette anni, Ungaretti era bravo a impastare il pane con le sue mani piccoline. Fu al forno di famiglia che imparò l’economia della frase: poca farina, tanta acqua e un po’ di lavoro, una croce sulla pagnotta calda in attesa della lievitazione, occhi chiusi a fessura e feroce determinazione.
Siamo nati per caso, ma siamo fabbri di destini, architetti di traiettorie di vita, mondine di emozioni, minatori di stupore, contadini di noi stessi, sempre chini sul terreno incolto di un amore mai completamente vissuto, mai completamente risolto.
martedì 14 dicembre 2010
Songwriter
La minore, mi settima e ci ammazzi anche un cavallo, con la tristezza di certe canzoni. Sono uova di lompo andate a male, da finirci in ospedale senza passare per il Via. Perché il Monopo.ly era più bello una volta, con le casette e le pedine di legno e il tabellone e i soldi più carini. Il compositore ardente sa che De Gregori è bravo, ma lui lo trova sopravvalutato. Non può dirlo alle riunioni di partito, ma può dirlo allo spartito, sporcandolo di note oblique, sudamericane come certi culi di marmo bianco. Guccini è triste come una madonna che piange sangue. De Andrè è un poeta, ma il rapimento l’ha ucciso prima di morire. Rino Gaetano non si può sentire. Paolo Conte è blasè, che è un termine francese per indicare la puzza sotto il naso. Lui sì che avrebbe tanto da dire. Ha scritto quella canzone, quella volta che lei l’aveva lasciato per un tipo del nord. Anche lei era del nord, ma col cuore sudista. La canzone parlava di viaggi e stanzette, abitate insieme, di canti di serene (gli occhi di lei), di amplessi frenati, di bocche fragranti e avanti e avanti. La sentì un produttore di Catanzaro, che fece sì con la testa e no col portafogli. Allora lui la iscrisse a un festival, che non vinse, ma fece un passaggio in radio che non poté ascoltare, perché l’apparecchio era sintonizzato male.
Il compositore ardente prende la chitarra folk e prova un fingerpicking che paga un tributo al country. Ne viene fuori un lamento di corde straziate, qualcosa che paga un tributo alle grida che seguono la tortura del sonno o della goccia cinese.
Lui sorride e pensa che fare i conti col proprio talento può mettere un uomo di fronte a uno specchio sormontato da un neon e tirare fuori dalle rughe di espressione una zampa di gallina spietata. Il tempo passa e la canzone migliore non è ancora stata cantata.
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